Cultura


(dal 18/08/05)

"L'isola d'Arturo"
di Michele Mocciola

(dal 14/08/05)
"Colpo di spugna"
di Paola Sereni

(dal 1/08/05)
"La scienza degli addii"
di Paola Sereni

(dal 27/06/05)
"Non c'è problema, chiaramente"
di Lucio Mariani

(dal 27/06/05)
L'uso del colore e le indefinibili pennellate di Boldini
di Francesca Montuori

(dal 7/05/05)
Recensione de: "Tu non c'entri"
di Fe.Al.

(dal 5/05/05)
Sulla lettura di poesie in un carcere
di Lucio Mariani

(dal 25/05/05)
Perché la filosofia è difficile?
di Alberto Madricardo

(dal 18/05/05)
A che serve la filosofia?
di Alberto Madricardo

(dal 10/05/05)
Il teatro di Peter Gill
di Gian Maria Cervo

(dal 27/04/05)
Le rune, tra misteri e fandonie

di Lorenzo Gallo

(dal 24/4/05)
Chi legge lo sa bene...
di Antonino Pingue

(dal 08/04/05)
Addio Julca
di Adriano Aldomoreschi

(dal 15/03/05)
L’hi tech all’italiana: tanto fumo & niente arrosto
di Antonino Pingue

(dal 15/03/05)
La campagna romana de "I XXV"
di Caterina Pellitta

Libro: “Di Razza Ebraica” di Renzo Modiano
(dal 20/02/05)

 

 


Archivio Cultura

 

Vecchiume in digitale:
“La foresta dei pugnali volanti”, l’ultimo film di Zhang Yimou:

(dal 2/02/05)

Libro: "L'Ala dell'angelo. Itinerario di un comunista perplesso".
di Lorenzo Gallo
(dal 29/01/05)

"Vecchiaia": saggio di Alberto Madricardo. Replica dell’autore al commento di Paola Sereni
(dal 29/01/05)

Quando le parole affilano i coltelli
(dal 23/01/05)

Giovanni Boldini
(dal 17/01/05)

“Mitteleuropa sul Tevere”
(dal 19/01/05)

"Vecchiaia" di Alberto Madricardo
(dal 8/01/05)

Presentazione de: "Finale, presto" di Ayres Cenni
(dal 8/01/05)

Presentazione de "L'ala dell'Angelo" di Emilio Rosini"
(dal 27/12/04)

Libro: "Parapista che Cipista!"
(dal 27/12/04)

Libro: "Le cose dell'amore" di Umberto Galimberti
(dal 19/12/04)

Uno sguardo sulla disciplina giuridica e tributaria dei fondi pensione
(dal 13/12/04)

Libro: "Scontrini, racconti in forma d'acquisto"
di Silvana Giancola

Aforismi
di Alberto Madricardo

“La Mala Educacion”
Analisi di un film
di Antonino Pingue

Libro: "La globalizzazione e i suoi oppositori" di Joseph E. Stiglitz
(dal 2/12/04)

Libro: "Quando abbiamo smesso di pensare?"
di Irshad Manji
di Lorenzo L. Gallo

Gli HAIKU
Genere poetico della letteratura giapponese
 


Quattro parole sul piacere di leggere

(di Antonino Pingue)


 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 





“La Luna di Carta”
di Andrea Camilleri

di Paola Sereni


Di Camilleri si è già detto tutto, ha vinto tutti i premi possibili, è al top delle vendite da sempre, tanto che ormai nelle statistiche dei libri venduti è considerato un fenomeno a parte: è notoriamente l’autore vivente più lealmente festeggiato dalla critica, dagli editori, dai lettori occasionali e non. E’ il fenomeno letterario del decennio a cavallo del 2000 e perciò è difficile lodare, senza rischiare di dire cose abusate e applicabili ad ognuno dei suoi formidabili, strepitosi racconti, il suo ultimo libro, La luna di carta -che presumibilmente sta villeggiando in migliaia di copie insieme ai rispettivi acquirenti sotto gli ombrelloni, nei rifugi alpini, in viaggio nei treni, aerei e mezzi di trasporto in Italia e all’estero.
Tutti quelli che l’hanno letto definiscono il libro divertente, leggero, vacanziero e si rendono conto che -tra l’ascoltare le chiacchiere del vicino di ombrellone o dell’ospite del comune albergo, conosciuto da poco- è più piacevole abbandonarsi alla fascinazione delle metafore garbate e accattivanti di Camilleri e soprattutto alle presentazioni -attraverso flash semantici- delle situazioni e dei personaggi, soprattutto quelli femminili: il paio d’occhi di Michela… “preciso ‘ntifico a un lago viola e funnuto nel quale sarebbe parso a tutti i mascoli bellissima cosa tuffarsi e annigare in quelle acque…”
Le gambe di Elena Sclafani “…longhe di natura sò, niscenno fora da quel giacchittuni rosso, parivano interminabili…”
Con i personaggi maschili è più cattivo: intanto con i suoi collaboratori che usufruiscono di un trattamento reiterato di brusca ma bonaria derisione (Catarella riferisce delle telefonate di Lattes, storpiandolo “sempre” in “Latte con la esse in funno” oppure chiama costantemente la password del computer “guardia ai passi che non lo fa passari…”; il suo seppur valido collaboratore Augello è indebolito dalle sue ansie di padre per il suo “Salvuccio” (e né lo salva dai sarcasmi del commissario, anzi aggrava la situazione aver chiamato il figlioletto come il suo capo).
Ma soprattutto riguardo agli specifici personaggi de La luna di carta… impietosamente: “la lampo dei jeans [del morto, protagonista dell’intreccio e al centro di vizi e passioni] era aperta, lo stigliolo gli pinniva tra le gambe”; il marito (che non consumava) “da cornuto pacinzioso era cangiato in vestia feroce…” ecc. ecc.
E perciò, indipendentemente dall’intreccio dei fatti raccontati ne La luna di carta che non è né particolarmente coinvolgente né particolarmente originale, chi non l’ha ancora letto perché magari pensa che sia “inutile”, si rassegni a farlo: gli rimarrà dentro qualcosa dello straordinario senso dell’humour e del linguaggio immaginifico e frizzante dell’autore o -quantomeno- qualcuna delle sue espressioni fascinosamente sinestetiche: “La giornata pareva di porcellana…” oppure qualche descrizione di persone genialmente azzeccata: a chi -vedendo D’Alema accompagnato da -tanto per fare un esempio- un tipo alla Dellera- non è rivenuto in mente da non so più che racconto di Camilleri la descrizione di una coppia: “lui di baffo stretto, lei di sostanziosa bellezza…” oppure vedendo una giovane donna in una decappottabile con motore rombante: “dipartirono con un tripudio di cosce al vento…”

E sicuramente saranno ancor più lieti e gratificati i lettori di sesso maschile dalla lettura del libro: perché il commissario Montalbano ha eclissato nell’immaginario collettivo tutti i commissari letterari e cinematografici (con la sola probabile eccezione di quelli francesi di Simenon e Jean Gabin… ). E anche perché è facile e sottilmente consolatorio per un lett-ore identificarsi nella speciale virilità di Montalbano con le simpatiche,”innocue” debolezze e indecisioni che l’accompagnano, sempre ben autogiustificate (Montalbano, di nette e malcelate tendenze niciane si crede “in buona fede” depositario del bene e del male…). Tanto più che da lui traspira una fin troppo consapevole adamantina onestà e fiuto professionale, uniti ad un aprioristico disprezzo per l’autorità costituita e i suoi superiori gerarchici che sono sempre -loro sì- sbeffeggiati da Montalbano-Camilleri perché immersi nella loro fatale e immutata miopia.
Anche di queste ultime sue eccezionali qualità umane e professionali il commissario è pienamente conscio, anche se a volte finge con se stesso, nelle sue elucubrazioni, un abbozzo di autocritica -in realtà autoassolvendosi come tutti facciamo- tanto che va avanti per la sua strada sempre, nella ferrea fiducia che Camilleri -alla fine- gli darà sempre ragione…

 

Torna su

“L'Isola d'Arturo”
di Elsa Morante

di Michele Mocciola

Agosto è un mese un po’ particolare: è un inarrestabile ritorno. Si ritorna alla vacanza ma si ritorna dalla vacanza, si ritorna al mare, alla spiaggia di sempre, al sole, si ritorna a quelle amicizie che soltanto con i piedi a mollo oppure nella sabbia calda riescono a sopravvivere, si ritorna alla svestitudine, primordiale, alla essenzialità dei movimenti per poi tornare – si dice – rigenerati ad uno stile quotidiano affatto diverso, intanto che ritornano le prime piogge. E’ un continuo andirivieni, quello che in agosto si consuma sotto i nostri occhi. Si torna anche a leggere, perchè c’è più tempo – pare; in genere si scelgono libri freschi, recenti, perchè durante l’anno non sembra ci sia spazio per tali oziosità. Sarebbe però il caso di celebrarlo meglio questo mese del ritorno, integralmente, sfogliando di nuovo libri datati eppure indimenticati, e se poi si tratta di un romanzo dove il sole e il mare, le partenze e i ritorni sono all’ordine del giorno, potremmo dire di aver goduto a tutto campo di questo mese così articolato.
Il libro in questione è: L’isola di Arturo, di Elsa Morante.
L’isola di Arturo è un grumo in gran parte maschile: la scrittrice Elsa Morante lo scioglie e lo regala, a noi, uomini e donne, che di meglio non sappiamo fare, imponendo però di purgarci in acque assolate, stagioni calde e amare, alti e bassi di fronti misteriosi, lontano dalla terra ferma, relegati tra i colori forti i sapori e gli odori di un’isola del mediterraneo. E’ su quella isola, e solo lì, assenti regole a noi ben note, distanti dai tempi di costrizione, privi di coscienze artefatte, psicologismi di comodo, ragionamenti edulcorati e atteggiamenti fittizi, che possiamo riscoprire, riscoprendoci, di sapere amare, innamorandoci, godendo di ciascun giorno intriso di un tale sconosciuto amore.
Il mistero degli uomini non è più tale, per gli uomini come per le donne, dopo L’Isola di Arturo, impudicamente svelato eppure mai, per un secondo neppure, esibito ostentato divulgato: tutto resta attaccato ad una pelle bruciata dal sole estivo, agli occhi significativi, alle movenze ai silenzi, a questi ultimi in particolare; mai come in questo grande romanzo il silenzio ci racconta una trama appena appena percettibile, a volte sbeffeggiata – Vattene parodia – eppure così tanto maschile, abituati come siamo, diversamente, a vincolarci a categorie tutte insieme perse in una decadente, ostinata, irritante: femminilità.

Torna su

“Colpo di spugna”
di Jim Thompson

di Paola Sereni

Strane pulsioni letterarie per i vacanzieri… d’estate va forte tra gli intellettuali a riposo la letteratura noir italiana o straniera. E’ il momento che -a parte il familiare e ormai innocuo Montalbano tempestivamente uscito in concomitanza con i tempi della valigia- si riscoprono gli autori più crudi: i Lucarelli, i Carofiglio, i Piazzese, i De Cataldo… ma anche Jim Thompson.
La Repubblica ha tempestivamente pubblicato in questi giorni un racconto di Thompson sull’inserto settimanale e così si è aperto un rinnovato interesse per questo scrittore americano tra Faulkner (non lo Steinbeck delle nostre letture giovanili, troppo “ottimista” sulla natura umana…), John Fante (troppo “trasognato”nella sua alienazione circa i sentimenti e le emozioni…) e Bukowski (troppo “romantico” nelle sue descrizioni porno…).
Chi scrive ha riletto “Colpo di spugna”: non è l’ultimo pubblicato da Fanucci, ma quello più autobiografico e non soltanto perché Thompson -come di consueto- ricorre all’espediente letterario dell’io narrante. Ma perché i fatti descritti non sono importanti, così come non lo sono nella pornografia propriamente detta: il libro infatti è, non tanto per i fatti che descrive ma per le elucubrazioni -fintamente autogiustificative ma consapevolmente elogiative- sulle malefatte compiute o progettate che Thompson mette in bocca al protagonista: lo sceriffo Nick Corey, la più pura pornografia intorno alla natura umana.
Alla luce della poetica di Thompson i principii filosofici di Hobbes sono roba da oratorio, i crimini della Storia: le guerre, l’Inquisizione, il nazismo, il terrorismo sembrano essere fisiologici alla natura umana e una inevitabile conseguenza, se si moltiplicano i pensieri del protagonista (qui non si può neppure definire eroe negativo) per i 4 miliardi di persone del Pianeta e cioè se si pensa che la Storia è fatta della somma di tante psicologie e comportamenti individuali.
Ma gli americani -anche se Grandi- in letteratura come nel cinema, nel teatro, nelle arti visive, hanno una caratteristica nel loro DNA: considerano (o meglio: invidiano) la Cultura come un fatto marginale, pur se importantissimo, nella vita di un Paese, mentre per noi europei -via via spudoratamente semplificando- è l’unico elemento portante e positivo della nostra società, in grado di nobilitare (o almeno provarci) i nostri sentimenti e le nostre azioni.
Del resto, nella Costituzione americana è espressamente previsto il “diritto a perseguire la felicità”, nella nostra democrazia alla base di tutto c’è (o ci dovrebbe essere) la libertà, nel senso di “libertà dall’ignoranza” che è spesso illusoria ma la sola degna di orientare e quindi anche qualificare i nostri comportamenti.. Ed è perciò che Nick, lo sceriffo brutale, volgare, che ammazza, tradisce, pensa sempre sporco e insozza tutto quello che lo sfiora, è sì un personaggio disperante ma così abissalmente ignorante e perciò lontano da noi che le sue avventure ci divertono e ci “distraggono” dalla nostra vita quotidiana intellettuale e reale.


Torna su

"La scienza degli addii", di Elisabetta Rasy
di Paola Sereni

Nadezda Chazina non ha ancora vent'anni quando, in un cabaret di Kiev per artisti e bohémien, incontra un giovane dalle lunghe ciglia che recita versi misteriosi e incantatori. Lui è il bizzarro e anticonformista Osip Mandel'tam: uno dei più grandi poeti del Ventesimo secolo.
Lei non sa ancora nulla della vita, ma il cuore e la mente le suggeriscono che amare quel personaggio vuol dire diventare donna, attraverso la fascinazione eterna di un’educazione sentimentale compiuta dall’uomo, amato che diventa il suo leader personale, il portatore di un modello di vita e di pensiero mai discusso.

Nella Russia sconvolta dalla rivoluzione e dalla guerra civile, tra speranza e paura, nasce un amore destinato a diventare leggendario. I due si amano in maniera parallela e opposta: lui ama Nadezda come una creatura sua, nata quando l’ha conosciuto: è la sua creazione poetica vivente, lui la inventa giorno per giorno: lei è la sua compagna di traversie, la sua confidente ma anche il suo amico, il suo uccellino, una cosa sua; gioca con lei dandole mille ruoli, gioca anche con il suo nome deformandolo in mille diminutivi e vezzeggiativi. La figura universale e mitica di Pigmalione, celebrata nella società occidentale in letteratura e arti visive, è sempre presente.

Lei lo ama -apoditticamente- perché, dopo il fatale incontro, lo ha scelto, perché è un “dato” nella sua vita: lui “è” la poesia ed è tutto il bene che offre la vita e tutto quello che lei desidera è perché lui lo desidera. Lui parla, lei ascolta, lui crea versi e lei umilmente copia: lui è la voce, lei la mano che scrive e poi sarà la memoria storica di lui e dei suoi versi.
Lui si dedica ad altre donne e lei trova la forza di sopportare perché preferisce vederlo vivo e appassionato piuttosto che avvilito dalla povertà e dai disagi della vita quotidiana.
Lei esiste attraverso di lui e i suoi speciali amici e conoscenti, che non sono per lei che un pallido riflesso del suo genio.
Separati per quasi due anni dalle turbolenze della storia, Nadezda e Osip si ritroveranno nel 1921 e non cesseranno di amarsi del loro speciale amore fino a quando, nel 1938, al culmine del terrore staliniano, Osip sarà deportato e morirà in un campo di concentramento in Siberia. Lei, tra persecuzioni e disagi, troverà un motivo di sopravvivenza nella sua missione: far sopravvivere i versi di Osip perché sono universali e il mondo, nel suo lento risollevarsi, ne ha più che mai bisogno.

In questo libro laico si celebra -insieme- l’amore per un uomo e per il suo genio vissuto come l’unica -laica- fede ed è perciò che si distingue da altri grandi romanzi incentrati su un amore scelto per “destino”da una donna (ricordate “La scatola nera” di Amos Oz?): qui è la poesia con la sua potenza vincente e lenitrice che tutto trasfigura e tutto nobilita, anche la Storia.
Il grande amore di Nadezda è un amore succubo, un amore umile e grande nella sua dedizione che sublima l’amore per Osip nell’amore per la Poesia nel suo aspetto più puro: la passione di Nadezda è perciò anche un inno alla Libertà, minacciata - in un contesto assurdamente e brutalmente autoritario - dalla malvagità di persone e circostanze che impediscono anche i più minuti piaceri di cui si nutre la vita e che può essere neutralizzata soltanto in una visione più ampia, trascendente, con una sdegnosa e apparente indifferenza che cela -nel profondo- una passione bruciante e un elegiaco rimpianto per ciò che poteva essere e non è stato.


Torna su

“Non c’è problema, chiaramente”
di Lucio Mariani

In merito al tema ampiamente trattato in questa pagina web sulla Lingua italiana, pubblichiamo un brano-divertissement inedito del nostro amico, poeta e scrittore Lucio Mariani sulla corruzione che subisce e i malvezzi che la infiorano. Il brano risale a parecchi anni fa ma è "chiaramente" tuttora
valido...

 

La nostra lingua è in pezzi, sconnessa, sbriciolata. Ridotta all’osso come deve essere uno strumento di comunicazione generalmente utilizzato, senza troppe varianti per evitare equivoci, senza dettagli per economizzare sui sogni e le divagazioni: insomma un ritorno all’antico per essere moderni, nel rispetto delle normali e brutali contraddizioni della “macchina”. Lo stesso parlato, designato a soppiantare lo scritto nella sempre più dirompente civiltà visiva, viene minacciato dal “vocale” o meglio dal “sonale”: si domanda, si interloquisce, si minaccia, si risponde, si gioisce per grugniti, ululati, uggiolii, singulti.
Mentre questa mutazione si va compiendo, mentre il congiuntivo va diventando un reperto, assistiamo all’invasione, allo sparpagliamento, all’atomizzazione di alcune parole o espressioni chiave che – nell’uso indifferente che se ne fa – costituiscono un vero esercizio di vaniloquio, prove generali di evirazione del significato e del significante.
Primo esempio. “Non c’è problema” e sue variazioni. Questo modo di dire ha fatto una lunga strada per arrivare a noi. Partendo dagli Stati Uniti, dopo una bella sosta in Sud America è sbarcato in Europa Latina. In Italia ha soppiantato definitivamente e indifferentemente il “sì” e il “va bene”, la sua ambivalenza risolvendosi nel tipo di domanda o di proposta cui risponde. Ecco come: “Posso venire a cena?” “Non c’è problema” (funzione del sì): “Non vorrei parlare con nessuno al telefono”
(funzione del “va bene”). Ora, questa locuzione affermativa che si nutre di una negazione, questa locuzione più rassicurante che affermativa dalla formulazione impropria (l’italiano pretenderebbe
semmai “Non c’è alcun problema”), è una cretineria vera e propria che la dice lunga sulla cultura e sui gusti dell’emittente.
Secondo esempio. “Chiaramente”. L’avverbio ha perso ogni contatto con la luce così come ogni funzione correttiva del verbo. Oggi, ripetuto fino all’ossessione, secondo nell’uso e nella memoria storica solo al nefasto e defunto “cioè”, vuol dire: “senz’altro” o non vuol dire niente, è un puro flatus vocis che viene infilato con compiacimento nei posti più impensati del discorso.
Il massimo della perversione è rappresentato da questo dialoghetto da me ascoltato: “Andiamo al cinema?” “Non c’è problema, chiaramente”.

Sullo stesso argomento leggi gli articoli di Paola Sereni:
La lingua italiana: Severgnini scopre l’acqua calda
,
La lingua italiana non ha bisogno di essere amata ma rispettata
Lingue, linguaggi e dialetti


Torna su

L'uso del colore e le indefinibili pennellate di Boldini
(Galleria Nazionale d'Arte Moderna di Roma)


di Francesca Montuori

 

Si è inaugurata a Roma la retrospettiva dedicata a Giovanni Boldini (1842-1931) promossa dalla Fondazione di Palazzo Zabarella di Padova (dove la mostra è rimasta aperta fino al 29 maggio scorso) in collaborazione con il museo Boldini di Ferrara e la Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti di Firenze.
I curatori della mostra - Francesca Dini, Fernando Mazzocca e Carlo Sisi - hanno selezionato più di cento opere, giunte per l’occasione da musei e collezioni private italiane, europee e americane, che permettono di approfondire la conoscenza e (ci auguriamo) gli studi e le ricerche su questo straordinario e spesso sottovalutato artista italiano. Il merito di questa importante e imperdibile mostra è infatti quello di poter vedere, per la prima volta dopo più di quarant’anni, opere di Boldini raramente esposte l’una vicina all’altra, e di poter comprendere le sue straordinarie qualità di pittore.
Nato con un’invalidità fisica che gli varrà più tardi l’appellativo di “gnomo” (nomignolo inventato dal famoso critico d’arte Diego Martelli) Boldini si rivolse presto al disegno e alla pittura, percorrendo una strada - a quell’epoca quasi forzata - all’interno dell’Accademia di Firenze, fortemente contestata dal movimento dei Macchiaioli. Ed è proprio da qui e dal caffè Michelangelo, dove spesso si recava Fattori, che parte il suo eccezionale percorso artistico che lo portò presto a sperimentare nuove tecniche e un nuovo utilizzo della materia pittorica, divenuta nel tempo co-protagonista delle sue opere.
Boldini ha avuto sicuramente una grande fortuna rispetto a molti artisti suoi contemporanei e - in parte - anche amici: fu pittore di successo, ricercato e certamente anche ben pagato dall’alta borghesia italiana e francese, accolto nei principali salotti culturali, amico di artisti (oggi più che noti) quali Degas, Manet e Sisley. Non si fece certo mancare nulla nella sua lunga e invidiabile vita: e tutto questo era sempre stato sotto i nostri occhi, abituati a vedere nelle sue opere un riflesso di quella “belle époque” fatta non di ballerine scollate e spesso anche un po’ brille (come le ritraeva Toulouse Lautrec), ma di vestiti e cappellini alla moda, di bellissime dame, di eleganti artisti e intellettuali colti all’interno di raffinati salotti. Ma questa retrospettiva ci rivela qualcosa in più: per quanto appartenente ad un mondo diremmo quasi ovattato, Boldini fu un attento conoscitore di tutte le avanguardie (anche degli artisti che non ebbero subito un’eco internazionale) che si succedettero in quel magico periodo a cavallo tra il XIX e il XX secolo e che rivoluzionarono completamente l’arte occidentale. Basti guardare alla sua assoluta anti-classicità nell’inquadratura delle immagini, nella scelta del punto di vista, nella stesura del colore, ma soprattutto alla vorticosa dinamicità delle sue opere, in particolare di quelle più tarde (come la celebre Marchesa Casati con penne di pavone del 1915 e qui esposta) che dimostrano come Boldini accolse spunti e suggestioni dai macchiaioli come dagli impressionisti, dai veloci schizzi di Toulouse Lautrec come dagli affascinanti paesaggi di Sisley, fino alle eccentriche sperimentazioni dei futuristi (il cui manifesto ricordiamo è del 1909), sempre reinterpretando a suo personalissimo modo ogni nuova proposta del poliedrico mondo dell’arte che si muoveva tra l’Italia e Parigi. Una sperimentazione che non rimase lettera morta, ma che a sua volta fu motivo di nuove ricerche per i giovani pittori che muovevano i primi passi nel periodo fra le due guerre: se ricordate qualcuno dei fiori di De Pisis non potrete non riconoscerne gli antecedenti in alcuni particolari delle opere più tarde di Boldini.
Ma quando sarete davanti ai suoi quadri (grandi e piccoli che siano), dopo averli apprezzati da una giusta distanza, fate un passo in avanti, avvicinatevi alla tela e guardatela da vicino: scoprirete un nuovo mondo, un’incredibile maestria nell’uso del colore, denso e materico, quasi tridimensionale nelle vesti, nei fiori, nei gioielli resi con poche, indefinite pennellate; un colore che però si raffina fino a diventare leggero e velato, quasi trasparente nei volti e negli sguardi. Un colore che da vicino sembra quasi il pastrocchio di un bambino, impastato e secco, ma che - facendo di nuovo un passo indietro - si scopre essere attento e mai casuale, dinamico tanto da essere quasi “sfocato”, e tale da accompagnare il nostro sguardo lungo un percorso all’interno del quadro fino a quell’unico elemento “fermo” che il più delle volte si rivela essere uno sguardo vivo e penetrante, e che - in barba alla statica classicità - sembra doversi volgere altrove da un momento all’altro. E se non credete che tutto ciò sia studiato e voluto, soffermatevi a guardare i disegni, e rimarrete sorpresi!


Torna su

Recensione de: “TU NON C’ENTRI”
di Fe. Al.

 

Chi entra nel mondo di Elena?
Si diventa grandi facendo subito la cosa giusta o sbagliando molte volte? Si trova un amore per sempre o cercandolo disperatamente, concedendosi a tutti e dunque a nessuno? Si scrive immediatamente un capolavoro, ovvero il libro della vita, o ci si muove lentamente sperando in una vita di libri?
Se dovesse rispondere a un fantomatico test, Letizia Muratori, al suo primo romanzo appena arrivato in libreria con Einaudi Stile libero, metterebbe la crocetta sempre su B.

Il suo “Tu non c’entri”, sprazzo di vita di una quindicenne come tante e come nessuna, figlia di una quarantenne come tante e come nessuna, è un tuffo in una generazione che l’autrice osserva come un’appassionata cronista. La Muratori, infatti, ha poco più di trent’anni e dunque non è né Elena, né la sua sbadata mamma. Eppure la sua scrittura, che non si fa mai gergo giovanilistico, riesce a portarti in quel mondo di ragazze e ragazzi troppo grandi e insieme troppo piccoli che vedi a frotte nelle piazze romane, davanti ai licei dove le lezioni sono già iniziate, o anche nei parchi, ma muniti di zaino e tutto quel che servirebbe per essere altrove.

Elena fa sesso con tutti, ma non si spoglia. Ha una storia, ma non la esibisce. Forse ha anche un sentimento, ma tanto vale non mostrarlo visto che nessuno riesce a entrare nel suo quasi autismo. La Muratori sa raccontarla senza farla diventare un’eroina dei suoi tempi. Sa usare le parole e le immagini che queste suggeriscono, come dovrebbe fare una giornalista. Forse c’entra il fatto che la scrittrice (siamo già alla seconda prova ben riuscita: nell’estate del 2004 uscì un suo racconto : “Saro e Sara” in “Ragazze che dovresti conoscere” The sex-anthology, Einaudi) è anche una cronista: si occupa di cinema.

Chi vuol posare lo sguardo su questi giovanissimi spesso trasparenti persino ai loro genitori, non perda il libro. Elena forse non è incinta, non è sfregiata dal fuoco, non è sola, non è una campionessa di skateboard, non è un simbolo. Di certo, è una ragazza. E Letizia Muratori l’ha chiusa in un libro… aperto come la vita.

“TU NON C’ENTRI”
di Letizia Muratori
Einaudi Stile libero Euro 9,80


Torna su

Sulla lettura di poesia in un carcere
dalla raccolta: Il sandalo di Empedocle
di Lucio Mariani*

a G.G. Belli

S’alzava maggio a Roma e sulle balze del colle digradante
erano zuffe di menta e di cicoria. Impennata la cannaiola
stava in altalena su ciuffi che scortavano il ruscello
a improvvisare il suo percorso allegro fra le spalle dell’orto.
Dal Gianicolo fino alla Lungara il sole s’ingaggiava
nella gara contro gli embrici biondi per inondare d’una luce
urgente l’edicola e il selciato.
Camminava su un lato della strada
disegnata dal taglio d’ombra esatto, tenendo a bada
le follie d’un gatto intorno a una borsetta abbandonata.
Era controra e pace. Solo rumori da campagna urbana.

Lettore appassionato di poeti
qui era chiamato a esercitare l’arte.
Varcò la porta dei destini arresi per incontrare
i resti inquieti di fratelli presi
nei quartieri del male.
Erano i giudicati, gli esclusi, gli Altri
stivati e chiusi nel ventre della fabbrica che ieri
un reggitore di mala ironia
seppe votare alla Regina Coeli.
Tra i muri bianchi il lungo corridoio
lo sospinse su un palco.
Aspettavano in tanti, uguale gente
che non sembrava attendersi più gesto
che non fosse l’affronto. Passarono
minuti di dolore in cui non vide niente.
Adesso impugnò fermo il pulpito nei bracci
e, fra guardiani attoniti, riversò
su quel popolo di stracci vicende d’una grande
poesia. Lesse la carta forte dell’aedo
che affronta Dio
che parla della vita e della morte
dell’anima e dell’io, di voglie nella carne
e della metafisica di colpe
che non hanno mai fine.
Il canto prese il volo e, presto rotte
le astuzie degli stenti in chi ascoltava
sciolse i nodi
compose gli occhi e i visi che si fecero attenti
sgominò le minacce della sorte
ed i colpi di tosse dei dubbiosi – effigi ferme
solo sul passato – ne accarezzò le menti
richiamandoli a un simile vissuto
e aprì i battenti della primavera
al vento dei sorrisi.
Era il finale
e un po’ di luce del maggio romano
si fece strada fra le gabbie scosse,

Se ne fuggì lontano.

Sulla lettura di poesia in un carcere” è uno dei componimenti centrali (oltre che uno dei più belli) della raccolta Il sandalo di Empedocle di Lucio Mariani: un centro verso cui convergono le linee di una poetica e di un’ispirazione che si sviluppa e progredisce da molti anni nella sua opera. Il potere del verso, che rigenera e salva un’umanità confusa e degradata, è il tema che qui è reso con immagini intense, raggiungendo, al tempo stesso, un nuovo equilibrio formale...
da: “Note sulla lingua di Lucio Mariani“ di Maurizio Dardano in “Poesia”, Mensile internazionale di cultura poetica, maggio 2005, Crocetti editore

* Lucio Mariani è nato e vive a Roma. Ha pubblicato tredici raccolte di
poesie. L'Università di Roma III gli ha dedicato un volume di traduzioni in sette
lingue. Sue liriche sono state tradotte in Francia, Grecia, Portogallo, Spagna e
Stati Uniti, dove è uscita recentemente un'antologia poetica "Echoes of Memory" (Wesleyan
University Press, 2003). Una raccolta di suoi poemi "Connaissance du temps" è in corso di
pubblicazione in Francia da Gallimard (Ed. de l'Arpenteur).


Torna su

Perché la filosofia è “difficile”?
di Alberto Madricardo

Per quanto riguarda la comunicazione filosofica, è vero quello che si dice: è spesso difficile, astrusa. A volte, per lo più, la difficoltà è dovuta al fatto che i filosofi, avvolgendosi di nebbie verbali, vogliono darsi importanza e nascondere la pochezza del loro pensiero.
Altre volte l’asperità del linguaggio filosofico dipende dal fatto che i filosofi usano parole abituali in modo inconsueto. Il loro linguaggio è acerbo perché hanno forzato le parole oltre il loro uso abituale, per indicare qualcosa che non è mai stato detto.
Credo però che la difficoltà principale della filosofia non sia in realtà quella della comprensione dei suoi discorsi. La cosa più difficile è rinunciare alle certezze acquisite. Ed è proprio questo che la filosofia richiede.

A volte le insuperabili “asperità del linguaggio filosofico” possono essere un comodo alibi per non dover mettere in discussione le proprie abitudini mentali. La difficoltà principale che la filosofia presenta allora non è linguistica, sta nel fatto che essa richiede un “innaturale” procedere all’indietro, a differenza della scienza (almeno nella sua accezione più comune): non dall’incertezza alla certezza, ma, all’opposto, dalla certezza all’incertezza, fino all’ideale crocevia originario in cui l’orizzonte dell’esistenza è totalmente aperto.

A parte ciò, ci sono, nella filosofia, cose effettivamente difficili, sia da comunicare, sia da capire. Nessuno pretenderebbe di capire di primo acchito la teoria dei campi magnetici della fisica.
Tutti riconoscono che per entrare nell’ambito della fisica (o della medicina, della biologia, ecc.) ci vuole una preparazione adeguata.

Chissà perché si crede che la stessa cosa non sia necessaria per la filosofia. Forse perché le domande filosofiche riguardano così intimamente ciascuno, che tutti ritengono di essere “in diritto”, in quanto esistono, di averne già le risposte certe. Ma bisogno e diritto non sono la stessa cosa.
Gli antichi filosofi risolvevano il problema distinguendo un insegnamento esoterico (per pochi esperti) da uno essoterico, divulgativo, per i molti. Questo può essere un espediente praticabile.
Ma secondo me questa distinzione va riconosciuta momento per momento, mai accettata come scontata e definitiva. Vedo che non tutti gli uomini sono filosofi, eppure non cesserò mai di stupirmene.


Torna su

A che serve la filosofia?
di Alberto Madricardo

Mi si chiede che utilità abbia la filosofia. E’ abbastanza comune ritenerla inutile, specie in rapporto ad altre discipline scientifiche che contribuiscono al miglioramento delle condizioni dell’esistenza dell’uomo.
La filosofia - si dice- è assolutamente inutile. Credo che questo sia esattamente vero.
La filosofia è inutile nel senso che “non serve a nulla”. Che non serve a nulla vuol dire che essa, letteralmente, non è al servizio di nulla. Ciò che è al servizio di qualcosa è a questo subordinato. La filosofia non serve a nulla perché non è mezzo per qualcosa d’altro, è fine. Esser fine vuol dire proprio non essere in funzione di nulla, “non servire a nulla”.
La filosofia, insomma, è re, non servitore.
Ora, se consideriamo tutto al servizio - cioè in funzione dell’uomo - come facciamo per lo più anche senza rendercene conto - l’unica “cosa inutile” risulta essere proprio l’uomo stesso, al quale tutto ciò che è utile viene finalizzato. A che cosa serve la nostra vita alla quale finalizziamo tutto?
Se adottiamo l’utilità come supremo criterio possiamo dire che la nostra stessa vita è “inutile”. Ma se affermiamo che è utile, dobbiamo ammettere che essa è utile rispetto a qualcosa, a qualcosa che fatalmente è a sua volta inutile.
Che cosa può essere ciò rispetto a cui la vita umana è utile? Si potrà dire: una singola esistenza umana può essere utile agli altri, al genere umano nel suo insieme. Ma l’umanità è fatta di individui, non c’è “l’umanità”, ci sono solo gli uomini in carne ed ossa. Tanti uomini singoli. Questa vita “più numerosa” non trova nel numero più senso. Una montagna di sassi non fa una pepita d’oro.
 
A che serve la vita dell’umanità? La risposta dovrebbe essere: a se stessa. Ma una vita, per quanto intesa come universale, al servizio di se stessa, è marcata dalla subordinazione. Importa meno che la subordinazione sia a se stessa del fatto che subordinazione ci sia. Importa, ed è grave, che la vita si riferisca a se stessa come ciò che è al servizio. Una vita al servizio di se stessa è una vita che vive all’ombra di ciò che serve: in quanto ciò che serve è se stessa, essa “all’ombra di sé”. Questo fatto, di essere al servizio di sé, non toglie nulla, anzi, semmai aggrava, il peso della servitù. La vita al servizio di se stessa è una vita essenzialmente infelice. La posizione di Locke, il maggior teorico del liberalismo, è di considerare la vita umana essenzialmente come una ricerca sempre inappagata dell’appagamento, e perciò perennemente infelice.
 

Va allora rigettato in toto il criterio dell’utilità? Per nulla affatto. Siamo stati in qualche modo costretti, per sopravvivere a considerare il mondo dal punto di vista della sua utilità a noi. L’umanità per un verso è portata, diciamo, “istintivamente” a garantirsi la sopravvivenza, a considerare l’esistere di per sé un bene. Per questo organizza il mondo in relazione alla sua utilità per lei. Ma, non appena questo bene è abbastanza assicurato, cade nella noia, perché avendo adottato il criterio dell’utilità per valutare il mondo, scopre di riflesso di essere essa stessa inutile. L’adozione del criterio dell’utilità ci fa “salire” di potenza in relazione al mondo, ma ci fa in proporzione analoga “sprofondare” in relazione a noi stessi. Più allarghiamo l’orizzonte dell’utile intorno a noi, più ci sentiamo inghiottiti nella inutilità rispetto a noi stessi.

La filantropia - che pone la esistenza umana singola al servizio dell’umanità - sposta il problema dal singolo all’umanità, ma non lo risolve. Si potrebbe sospettare che compie questo spostamento per mimetizzare il problema della inutilità dietro al paravento della “nobiltà della causa universale”. Ma, se i singoli sono inutili davanti a se stessi, non perché sono pomposamente elevati a far parte di insieme universale divengono utili. A meno che l’universale non venga esso stesso divinizzato. Allora avremo una “religione dell’umanità”, ben nota alla filosofia da qualche secolo. Chiunque può abbracciare questa religione, purché ammetta che di religione si tratta, irrazionale, in quanto al modo di ogni religione divinizza qualcosa. In questo caso l’uomo invece che dio. Se si dice: “meglio divinizzare l’uomo piuttosto che dio”, si deve anche dire perché. Se si risponde “perché è più utile”, perché “serve di più”, forse non ci si rende conto di indicare all’uomo una prospettiva di servitù. Una prospettiva non certo rosea, ma cupa, da incubo. Come quella che, nella sua onestà intellettuale, indica apertamente Locke. Che la servitù sia “servitù al genere umano” non toglie nulla alla gravità del fatto che si concepisca l’esistenza come servitù.

Se posso esprimere sommariamente un’opinione riguardo a questo problema, in poche parole riassumerò la mia riflessione. Sono convinto che l’umanità abbia costruito, per salvare la propria esistenza, la condizione oppressiva di una servitù a se stessa. Mi pare che, mentre la retroguardia dell’umanità deve ancora arrivare alla meta della salvaguardia del proprio esistere, e ci sono ancora enormi problemi di fame, di malattie, di miseria, la parte avanzata stia già sperimentando “il rovescio della medaglia”. Non credo che si debba aspettare che siamo tutti allineati nella stessa condizione prima di porci il problema, dopo esserci liberati della servitù alla natura, di liberarci dalla servitù a noi stessi. Anche perché credo che soltanto cominciando a risolvere il problema che sta davanti al secondo punto di vista si possa realmente risolvere, fino in fondo, quello che sta davanti al primo.
Questo è ambito della ricerca filosofica, certamente, volutamente “inutile”, perché rivolta alla liberazione dell’uomo dalla subordinazione, che può diventare schiavitù, della utilità, anche della utilità a se stesso.
Non credo - è una mia convinzione che non pretendo di dimostrare qui - che riunendo tutti i pezzi della realtà secondo il criterio della utilità il “puzzle” della vita riesca del tutto. Certo, fino ad un certo punto funziona, secondo me “fino alla metà” del puzzle. Ma appena dopo la metà, il “mezzo ordine” creato ogni pezzo aggiunto secondo il criterio dell’utile ritorna come un boomerang distruttivo. I pezzi aggiunti sortiscono l’effetto di disordinare anche la metà che si credeva già ordinata in modo definitivo. Sarebbe bene che chi lavora entro la prima metà cominciasse a coordinarsi con quelli che lavorano, cercando altri criteri, nella seconda.

Torna su

Il teatro di Peter Gill
di Gian Maria Cervo

Ci sono certi drammaturghi inglesi che quando li incontri ti danno l'impressione di essere spettri provenienti dagli anni ottanta. Ti parlano di una società britannica che non esiste quasi più, di maniere che appartengono alla storia. Peter Gill, no. A sessantasei anni, al culmine di una carriera spesa a fondare e a lavorare per alcune delle maggiori istituzioni a sostegno della nuova drammaturgia, coglie ancora perfettamente le evoluzioni della cultura globale ed è capace di una scrittura profondamente proporzionale all'epoca che stiamo vivendo.
Forse è perchè non ha mai perso interesse nei giovani e nella loro cultura, forse perchè proprio negli anni ottanta, il decennio in cui molti suoi coetanei hanno raggiunto i picchi del loro successo, le opere di Peter hanno conosciuto il periodo di minore fama e apprezzamento. C'è chi crede che gli scritti di Gill non interessassero all'epoca dura del thatcherismo perchè c'è una tenerezza che li pervade. Peter Gill è un eccellente ascoltatore, un antropologo. Il suo stile è stato definito "naturalismo studiato". Peter è capace di riprodurre con straordinaria maestria la vita di moderne tribù. Pezzi di quartieri, strade che, come in "Cardiff East" costituiscono dei microuniversi.

L'innato senso del ritmo di questo originale autore taglia le noie e i grigiori dalle conversazioni da vicinato, da camere da letto, da giardinetto, fa coesistere più situazioni nello stesso spazio scenico, mette insieme significati letterali e metaforici, annulla la distinzione tra interno ed esterno, tra fuori e dentro.
Per usare le parole del regista Dominic Drumgoole "La comune percezione dell'opera di Gill è che essa sia fondamentalmente naturalistica. E' sbagliato. L'autore usa una pittura naturalistica solo in un primo momento, per spanderla poi per il teatro con una serie di stravaganti pennellate alla Jackson Pollock". Nel gioco di Gill i personaggi sembrano ignorare deliberatamente la presenza del pubblico. Fanno riferimenti a figure che non compariranno mai in scena etichettandole semplicemente con un "lei", un "lui", un "loro"; il pubblico capisce progressivamente l'importanza di queste figure.
Il linguaggio è caratterizzato da un colloquialismo estremo, da battute i cui significati si chiariscono con lo scorrere delle scene. "Non sono venuta per niente" dice un personaggio femminile di "Cardiff East" al suo vicino di casa. "Che?" risponde lui. "Non sono venuta per una tazzina di zucchero o qualcosa" replica ancora lei. E noi ridiamo con lui perchè in quelle battute sono racchiusi un ambiente e uno stato d'animo.
I dialoghi di Gill sono strutturati in maniera poliziesca. Per questo catturano il pubblico. Vediamo coesistere la leggerezza di "Eastenders" con la forza e la dimensione comunitaria e rituale di una tragedia greca.
La mia preoccupazione, nel lavoro di traduzione compiuto su "Cardiff East", "Over Gardens Out" e "In the Blue", è stata fin dall'inizio quella di restituire non solo la capacità di Gill di descrivere gli ambienti (non a caso Peter mi ha parlato, in una nostra conversazione, con grande ammirazione del teatro di Goldoni) ma anche l'unicità degli ambienti descritti. Cardiff è una città con caratteristiche precise. E' una città portuale. Ma non può essere, per ragioni diverse, nè Napoli, nè Genova, nè Piombino. Tradurre "Cardiff East" in un preciso dialetto italiano sarebbe stata una scelta che avrebbe potuto portare a un sostanziale fraintendimento del teatro di Gill. Perchè Peter Gill studia luoghi e comunità, e nei suoi studi adora la precisione, l'attenzione; detesta quando si vuole far passare per carattere universale il carattere generico di un testo- e questo nel mercato culturale oggi succede fin troppo spesso- così come detesta il localismo superficiale, populista e folkloristico di certo teatro pseudopolitico.
E' uno scrittore complesso, che da un lato descrive la working class della sua terra d'origine come se fosse l'unica cosa che possa descrivere e dall'altro si dimostra curiosissimo per gli impulsi culturali che si manifestano oggi nelle varie parti del mondo e per un confronto con le drammaturgie di tutte le epoche e le aree geografiche (non a caso è stato il fondatore del National Theatre Studio che, prima del cambio di linee programmatiche che l'ha interessato nell'ultimo anno, è stato la più importante struttura informativa- quasi un'agenzia di intelligence- sulla nuova drammaturgia e sul teatro di ricerca a livello internazionale).
La soluzione migliore per la versione italiana di "Cardiff East" , opera che si presenta come riflessione sul concetto di origine e si interroga sui valori familiari, sulla condizione proletaria, sulla storia del Galles e sulla condizione di essere considerato uno straniero in patria, è sembrata quella di adottare una lingua che desse l'impressione di un dialetto pur non essendolo, che fosse capace di disegnare senza ambiguità le storie e le origini dei suoi personaggi; ne è venuto fuori un italiano con suggestioni dialettali (più che altro del Centroitalia) che curiosamente mi ha permesso a tratti di mantenere intatti alcuni giochi linguistici del testo originale.
Per "Over Gardens Out", opera di drammaturgia impressionista ricca di suggestioni visive, che descrive la delicata relazione tra due ragazzini bloccati nell'espressione dei loro sentimenti dai loro background, il colloquialismo nella lingua italiana si è attenuato (quest'opera del resto è stata scritta nel 1968 mentre "Cardiff East" è del 1997) mentre per "In the Blue", testo musicale sulle infinite possibilità nelle relazioni amorose, la lingua si è fatta più surreale, dovendo descrivere -fatto piuttosto eccezionale nella drammaturgia di Gill- una situazione, prima che un ambiente, ricca di non detti, di sottintesi, di doppi sensi, in cui i vissuti più o meno traumatici dei due protagonisti costituiscono l'ostacolo per un rilassamento nel loro rapporto.
Nel lavoro compiuto mi sono state straordinariamente utili le conversazioni con Peter Gill e le lunghe riflessioni con Tim Stark e Carolina Migli, oltre al sostegno dell'intera compagnia di attori coinvolti nel progetto. Il mio ringraziamento va a tutti loro per i preziosi contributi dati alla realizzazione della produzione e del mio lavoro sull'opera di Gill.



Torna su

Le rune, tra misteri e fandonie
di Lorenzo Gallo

L’origine delle rune
La scrittura runica, l’alfabeto autoctono della tradizione germanica, attestato -con più o meno certezza - presso tutte le maggiori popolazioni antiche di lingua e cultura germanica, ebbe un ruolo fondamentale nella cultura precristiana: in una società prevalentemente analfabeta, la scrittura assume necessariamente il valore di codice segreto attraverso il quale coloro che sanno decifrarla comunicano tra di loro, e a cui il resto della società, in soggezione nei confronti di tale minoranza qualificata, attribuisce poteri soprannaturali, e dunque anche un valore magico. Per questo il valore originario della radice protogermanica run- sembra essere quello di “sussurrare; esprimersi confidenzialmente o in segreto”. In diverse lingue germaniche antiche esistono parole derivate da questa radice che significano “consiglio” o “decisione segreta”; per esempio in gotico, una parola runa traduce il greco mysterion “segreto, mistero da iniziati”.

Il campo semantico è chiaramente quello della trasmissione esoterica di un patrimonio di conoscenze proprio di una classe tendenzialmente chiusa, anche se non di un vero e proprio clero, di cui non possiamo ricostruire l’esistenza in base alle testimonianze storico-letterarie. Il legame tra questo termine e la magia, almeno nella tradizione nordica, è testimoniato anche dal prestito della parola germanica nella parola runo in finlandese, dove indica un canto composto in metro allitterativo, che può essere poema eroico o cosmogonico, oppure anche un incantesimo.
Anche oggi del resto in cui si tende a distinguere tra la valenza funzionale della lingua come trasmissione di pensiero e le sue suggestioni culturali legate alla storia di un popolo o al mito, le rune incuriosiscono e affascinano proprio perché sembrano celare i segreti e le brume del nord, evocano folletti e valkirie, boschi incantati e spade insanguinate.
A volte perciò le rune vengono utilizzate proprio per trasmettere un messaggio a pochi “iniziati”, cioè per sottendere che si parla di qualcosa di esoterico, riservato a pochi eletti. Se pensiamo all’informatica, il logo di Bluetooth, il sistema di connessione wireless, deriva dal nome del re vikingo Harald Bluetooth (ovverossia “Dente-azzurro”) da cui prende il nome: infatti la sua icona è una “B” runica.

Le Rune e il Web. Gli equivoci del nazifascismo
Invece, se malcapitatamente e distrattamente si digita la parola inglese "runes" in Google, il motore di ricerca più utilizzato attualmente nel mondo, si ottiene un gran numero di risultati.
Si può subito notare che, a parte pochi siti di carattere accademico, il grande interesse del pubblico dei non addetti ai lavori è indirizzato principalmente in due ambiti: in primo luogo, come ogni testimonianza di cultura germanica precristiana, le rune sono molto amate dai movimenti di estrema destra; inoltre, a partire da qualche notizia estrapolata da fonti storiche e più o meno rimasticata, le rune sono considerate un importante strumento magico, in particolare per gli oroscopi.
Questi due atteggiamenti nei confronti delle rune non sono nuovi, e sono intimamente connessi tra loro. Il legame delle rune alla cultura politica della destra totalitaria risale alle radici romantiche del nazismo, che ereditava dal Romanticismo (in particolare tedesco) un grande interesse per il patrimonio germanico precristiano.
Il primo impulso in questo senso era stato dato soprattutto in funzione anticristiana (il Cristianesimo come degenerazione dello spirito), anche se poi il nazifascismo di fatto scelse una via diversa, che potremmo definire "neoclericale", riuscendo – tramite i Concordati ed un accorto lavoro di avvicinamento culturale – a coinvolgere parte della Chiesa nei suoi folli progetti.
Dall'interesse per la cultura germanica antica si passò alla rivalutazione del Medio Evo, e quindi non stupiscono le foto d'epoca che ritraggono folle di preti e suore che “in perfetta buona fede” si esibiscono nel saluto romano.
Ciononostante.. il primo amore non si scorda mai, e il nazismo conservò sempre un particolare amore per il periodo precristiano, in cui i Germani erano ritratti, secondo l'ideale tratteggiato nella Germania di Tacito, come un popolo forte e virtuoso, non toccato dalla corruzione della Roma imperiale.
Questa particolare predilezione provocò durante il nazismo un'imponente fioritura di studi sulle rune e sugli altri aspetti della cultura precristiana, in particolare sul paganesimo germanico, e di conseguenza l'attento studio della letteratura scandinava antica, l'unica che conservava tracce non marginali di questa cultura.
In tal modo, spesso gli autori nazifascisti finirono per attribuire tout court alla cultura pangermanica ciò che più tardi si rivelò come tipicamente scandinavo; per esempio, appunto, il grande amore per le rune.
Com'è noto, i fascisti italiani furono purtroppo nient'altro che “servi sciocchi” al servizio dei nazisti tedeschi; se qualche indipendenza del fascismo dal nazismo vi fu, essa fu distrutta con la nascita della Repubblica Sociale cui, com’è noto, si rifaceva il vecchio MSI: i fascisti della RSI aderirono entusiasticamente alle tesi naziste, ripetendole “a pappagallo” anche laddove queste contemplavano la superiorità della "razza" germanica sulle altre ("italica" compresa, qualunque cosa volesse dire): ancora oggi i giovani neofascisti delle borgate inneggiano dunque, usando le rune, ad una loro conclamata inferiorità nei confronti dei Tedeschi (e a volte risulta davvero difficile biasimarli!).
Naturalmente, tra gli studiosi nazisti c'erano filologi, archeologi e storici profondamente competenti, anche se accecati dall'ideologia: e questo permise al Nazismo di elaborare una mitologia germanica posticcia, aggiungendo quello che era scomparso e falsificando con cura e astuzia, sì che ancora oggi lo studioso ha difficoltà a distinguere i falsi archeologici e filologici prodotti all'epoca.

Le rune e l’oroscopo: distinguere il falso dal vero
La cultura nazista per prima tentò di sistematizzare una teoria delle rune come scrittura magica; ancora oggi, nessuno nega che una cultura prevalentemente analfabeta come quella germanica attribuisse un valore particolare al segno scritto, ma l'uso delle rune, noto e comprovato per la magia nordica, difficilmente può essere attribuito tout court all'ambito germanico comune. Se infatti il Medio Evo ci ha tramandato numerosi manufatti nordici: bacchette di legno, lamine di metallo e bastoncini d’osso incisi con misteriosi incantesimi runici, simili oggetti sono pressoché inesistenti sul Continente: sono pochissimi, di incerta interpretazione e spesso sospetti agli occhi degli accademici, consci che spesso il dilettante (e a volte persino lo specialista) trova quel che vuole trovare.
In questo caso, ben poco sappiamo, e spesso la comparazione tra culture germaniche permette di individuare non solo alcune remote affinità, ma anche numerose profonde discrepanze.
Per esempio, è noto che la testimonianza più attendibile sui nomi con cui ciascuna runa veniva designata è offerta da alcuni poemi detti "runici", che descrivono in versi le caratteristiche di ogni runa e spesso il suo nome; ebbene, proprio questi componimenti mostrano che tra l'ambito anglosassone e quello nordico le differenze possono essere profonde ed estese, mentre i punti di contatto sono rari, limitati quasi solo ai nomi delle lettere, ma a volte neanche a quelli.
Per quanto riguarda la possibilità di fare magia con le rune, e in particolare di prevedere il futuro, tali pretese si basano su supposti fondamenti non solo ascientifici, ma anche astorici: infatti da una parte sappiamo che nell’antico alfabeto runico solo quattro-cinque segni sembrano decisamente negativi (come ci dicono i loro nomi: Thursaz "gigante cattivo" - o Thorna "spina" -, Hagalaz "grandine", Naudhiz "schiavitù", Isa "ghiaccio" e forse Kaunaz "torcia, fuoco” poi anche “ascesso"). Dunque i veggenti presso i germani dovevano essere dei veri ottimisti!
Inoltre, occorre notare che simili pretese si scontrano con difficoltà nel ricostruire lo stesso nome dei segni, che in alcuni casi (in particolare per “p” ed “e chiusa”) si rivelano insormontabili allo stato attuale delle conoscenze. In assenza di un nome ricostruibile per questi segni, come si può azzardare una ricostruzione di magia runica? Non si può, infatti: chiunque lo fa vi propina una “bufala” non solo perché si spaccia per mago-cartomante-zingara-che-vede-e-stravede, ma anche perché basa la sua magia su informazioni sballate e inattendibili, sconfessate da qualunque storico e filologo dotato di un minimo di serietà professionale.

Per ulteriori informazioni su rune e magia, potete consultare l’indirizzo www.filologiagermanica.info

Torna su

Chi legge lo sa bene…
di Antonino Pingue

 

Quando si scrive un racconto è buona regola ambientarlo in posti esotici e avventurosi. Salgari ambientava le sue saghe in Malesia, Jules Verne al centro della terra, sotto il mare e perfino sulla Luna.
Gli organizzatori del concorso letterario “Io Feltrinelli”, indetto dalla nota casa editrice, per i cinquanta anni d’attività, sembrano conoscere bene questa regola. Infatti i racconti, che tutti i clienti delle librerie Feltrinelli sono stati invitati a scrivere (un massimo di 100 parole), e che ha visto la premiazione lo scorso 15 aprile, dopo una grande partecipazione (rimandiamo al sito della Feltrinelli per i dettagli sul concorso che vedrà una seconda edizione) poneva come tema comune che tutti i racconti fossero ambientati in assoluto in uno dei posti più misteriosi e “pericolosi” che le nostre comode città conoscono: le librerie.
Chi legge lo sa bene…
Frequentare una libreria non è cosa facile né priva di rischi. Strani esseri la popolano (e fra questi ci mettiamo noi stessi).
Ad esempio in una libreria c’è sempre il signore che si sposta da un bancone all’altro (non va mai ad uno scaffale ma il perché lo spiegheremo dopo), e ogni tanto prende un libro e lo sfoglia.
Quello, potremmo definirlo l'Impollinatore.
La caratteristica principale di un Impollinatore da libreria è la molteplicità dei suoi pensieri. Non ha la più pallida idea di cosa comprare, capace che alla fine non comprerà nulla. Tocca tutto però. Quindi curiosa, cerca, forse si ispira. Disegna percorsi a zigzag o a spirale. Generalmente un Impollinatore è onnivoro: spazia dalla narrativa classica ai romanzi di fantascienza, dal fumetto al bestiario medioevale, dal catalogo filatelico all’annuale edizione dell’oroscopo. Quando afferra un libro, lo sfoglia e legge qualche riga. E’ un avido consumatore di quarte di copertina.
L’unico spauracchio di un Impollinatore sono i libri incellophanati. Se può li snobba. Li rimette giù stizzito. Ma a volte capita che un libro incellophanato lo freghi e lo attiri nelle sue spire. Non si sa cosa, il disegno sulla copertina, il peso (non l’odore che non passa), ma deve assolutamente comprarlo.
Sta di fatto che l’Impollinatore, che è un tattile, non può comprare un libro che non ha prima sfogliato. E’ contro la sua natura. Allora i casi sono due: o con fare sovversivo rompe l’odiato involucro plastico e sazia illegalmente la sua curiosità; oppure si risolve a comprarlo a scatola chiusa. Con aria di chi gli scappa la pipì, si precipita alla cassa, paga e lo scarta. Correzione: lo sventra. Imprecando perché, di solito, è il libro sbagliato.
Un altro tipico personaggio che si incontra in libreria è una signorotta ferma in mezzo a tutto, che segue con lo sguardo un giovane e piacente commesso intento a mettere a posto libri. Non è innamorata, e non stiamo assistendo ad una passionaccia intergenerazionale.
Quella è una Domandante.
Ora la Domandante da libreria, come mette piede in una libreria perde la capacità motoria, quasi tutta l’intelligenza, e del tutto l’iniziativa.
La Domandante non sa cercarsi un libro da sola. Anzi i libri, che le guizzano da per tutto, a non più di 50 centimetri, e dai quattro punti cardinali, sono per lei oltremodo invisibili e misteriosi.
La Domandante la puoi trovare all’ombra di dodici altissime colonne formate dall’ultimo indimenticabile best seller con gigantografia beota dell’autore, che aspetta il commesso per chiedere dove può trovare proprio quel libro. Magari nel frattempo nota un granello di polvere sul tacco della sua scarpa destra o un’impercettibile smagliatura alle calze. Comunque, la Domandante aspetta; colma di sovrumana pazienza aspetta, cieca, in mezzo al mondo.
Infine segnaliamo il personaggio più divertente che possiamo incontrare in libreria: la Regalomane.
Una Regalomane da libreria non vuole mai un libro per sé. Che sia ben chiaro: si trova là solo perché ha avuto l’idea di regalarne uno. E’ entusiasta per antonomasia. Un po’ mecenatica, un po’ tazzina di the o pasticcino, adora tutto. Ma è una attenta acquirente e non bisogna lasciarsi ingannare dalla sua futilità. Ama mercanteggiare, ha le sue opinioni, e vuole essere affiancata da un suo pari. Una Regalomane entra in libreria come fosse dal gioielliere. Pretende. Pretende di essere seguita passo passo, pretende di essere consigliata e intrattenuta con perifrasi amene quanto dettagliatissime, pretende di essere considerata una cliente, mai un’occasionale avventrice. Si sceglie il commesso più preparato (e anche quello più avvenente), conosce tutti per nome e saluta. Riferisce i risultati degli acquisti precedenti, e chiede sempre lo sconto.
Nota bene: la Regalomane è solo di sesso femminile. E’ un animale dalla riproduzione agamica.

Se gli animali da libreria sono strani, ancora di più lo sono i libri che li attirano.
Potremmo dividere lo scibile cartaceo in due fondamentali branche: i libri di pancia, ovvero quelli poggiati sui banconi in modo da mostrare la copertina, e i libri di culo, che sono invece riposti lungo gli scaffali che ricoprono le pareti.
Libri di pancia e libri di culo costituiscono una discriminante fondamentale nella scelta di una libreria. Ci sono librerie dove abbondano i primi e librerie dove addirittura ci sono solo i secondi (con conseguenti variazioni della fauna locale).
Trovo che i libri di pancia sono più aperti e democratici, pronti a venirsene via con te; ma nulla vieta che un libro di pancia successivamente diventi un libro di culo.
I libri di pancia a loro volta si dividono in capofila e retroguardie. I capofila sono i primi della colonna, gli scafati. Se hanno la copertina patinata, non è raro trovarci le impronte di un Impollinatore che li ha appena aperti. Possono avere anche qualche strappo o una piega. La retroguardia è invece intonsa e nuovissima. Bellissima e vergine.
Scegliere se prendere il capofila o la retroguardia, è tutta una questione d’intuito… Una regola precisa non si può stabilire. In generale io preferisco prendere retroguardie per i libri molto grossi, che ti seguiranno a lungo, e capofila per quelli più piccoli.
I libri di culo sono tutta un'altra storia. Se i primi sono il proletariato e il sottoproletariato cartaceo, i secondi sono la intellighenzia. Rifiutano di farsi scegliere casualmente; piuttosto devi stanarli. Per questo lungo uno scaffale non troverai mai un Impollinatore né tanto meno una Domandante. I libri di culo impongono la fatica di cercarli. Se i libri di pancia cambiano di volta in volta luogo (ballano durante la notte quando la libreria è chiusa), sanno sempre come finirti sotto il naso. I libri di culo non cambiano posizione, mai, ma se ti avvicini ti sputano in un occhio!
I libri di culo, sono di solito più cari dei libri di pancia.
Con i libri di culo, può capitarti, però, qualcosa di eccezionale. Puoi imbatterti nel grande vecchio. Ora un libro vecchio non è mai un libro scritto tanto tempo fa ma un libro stampato tanto tempo fa… e dimenticato.
Quasi sempre è di un autore sconosciuto e la storia ricorda gli sceneggiati televisivi che vedeva tua nonna. Ha le pagine ingiallite, i colori tutti sbagliati. Dritto da un’eternità si è leggermente allunato. I caratteri sono desueti. I titoli dei capitoli preistorici. Se lo compri ti è garantito un viaggio nel tempo; ti staccherai da tutto ciò che è live, avrai cento anni per le cento pagine che lo compongono (i grandi vecchi sono spesso corti). Sai, perché lo sai benissimo, che l’autore è tornato al mercato a vendere pomodori. Ha fatto le valige e ha rinunciato. Così a comprare il suo libro ti pare di esplorare senza autorizzazione una vecchia casa di campagna dove un tempo correvano bambini spettinati, mancava la penicillina e il pane si faceva ancora con le mani sporche di terra.
Potremmo proseguire a lungo, ma la finiamo qui.
Concludiamo dicendo che a conti fatti un libro, questo oggetto strano, e antitecnologico che ossessiona alcuni di noi, si comincia a leggere - come dice Calvino nel primo capitolo di “Se una notte d’inverno un viaggiatore” - molto prima di averlo comprato e letto.
Leggere dunque, come mi è gia capitato di dire, è a tutti gli effetti una malattia, che ci espone a infiniti rischi.
Chi entra in libreria, non solo si espone ad ogni possibile avventura (e ben venga di scriverne) ma compie quasi un gesto rivoluzionario, sicuramente anti-convenzionale. Come anti-convenzionale e rivoluzionario era il fondatore della Feltrinelli, Giangiacomo Feltrinelli (1926-1972) che fondò la casa editrice nel 1955 in poche stanze e con pochissimo personale. Figlio di industriali, entrò nel PCI giovanissimo, ma ne uscì nel ’57. Nel ’57 pubblicò “il Dottor Zivago” di Pasternak; l’anno dopo fu la volta del “Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa, rifiutato poco prima da Einaudi. Vicino alle rivoluzioni terzomondiste e, in letteratura, alle avanguardie, Giangiacomo diede presto alla sua casa editrice un profilo inconfondibile. L’editore morì nel ’72 a soli 46 anni mentre tentava di far saltare un traliccio a Segrate.

 

Torna su

ADDIO JULCA
di Adriano Aldomoreschi

 

Storia e Memoria, Vita e Testimonianza, sono temi oggi vivi più che mai, anche per i recenti eventi luttuosi che vedono Roma centro del Mondo.Esistono dunque persone testimoni più di altre della Storia, comunque la si pensi. Ed esistono anche persone che vivono all’ombra della Storia e dei suoi protagonisti. E’ perciò che la redazione di WebTimeC, pubblica oggi, con particolare piacere lo splendido brano del nostro socio Adriano Aldomoreschi, (brano già pubblicato per Rinascita nel 1980), sulla morte di “Julca”, la moglie di Gramsci, che Aldomoreschi conobbe personalmente quando era inviato per il Corriere della Sera a Mosca. Un brano che nella sua semplice liricità, nella sua lucida e limpida prosa, mostra e narra più di ciò che dice, diventando una testimonianza generazionale e storica al di là del tempo e delle risonanze mediatiche, oltre che una esemplare lezione di scrittura.

Adriano Aldomoreschi

Adriano Aldomoreschi è un giornalista che ha lavorato a L'Unità dal '47 al '65 con sede di lavoro a Genova, Milano e Roma; negli anni '70 e '80 - per circa otto anni - è stato poi corrispondente di Paese Sera a Mosca.

 

Mosca, 4 luglio 1980 – Quando arrivai a Mosca, più di sette anni fa, tra i tanti desideri nutrivo quello di conoscere Giulia Schucht, la «Julca» delle lettere di Gramsci. Vi sono scritti, vi sono immagini che lasciano segni profondi che non si cancellano più e concorrono a determinare decisive scelte di vita. Le lettere di Gramsci dal carcere, le fotografie di Giulia con i suoi due bambini, Delio e Giuliano, sono tra questi scritti e queste immagini. Esse hanno condizionato le scelte e i sentimenti di tanti comunisti e antifascisti della mia generazione.

Per quel che mi concerne, ho sempre creduto che questo condizionamento sia stato, nel mio caso, più intenso o diverso, proprio a causa dell’immagine di Giulia. Forse perché a cinque anni perdetti mia madre l’immagine di Giulia suscitava in me un sentimento di acuta nostalgia per una donna come lei. E invidiavo l’amore di Gramsci, la profondità dei suoi sentimenti, il suo stesso dolore. In realtà, era la dolcissima impronta materna del volto di «Julca» la mia vera suggestione. Guardando la sua fotografia, più che identificarmi con Antonio Gramsci, era in Delio e Giuliano che inconsciamente volevo riconoscermi.

Mi proponevo di visitare Giulia Schucht, ma il primo impatto con Mosca non fu positivo. Vissi per molto tempo in preda a profondi scoraggiamenti e a forti rimpianti per l’Italia. Passarono gli anni. Avevo sempre presente il mio proposito di conoscere «Julca», ma senza più lo slancio dei miei primi mesi moscoviti. Chiedevo dove si trovasse Giulia Schucht e se, come su tante altre cose, ricevevo generiche risposte («è in un sanatorio fuori Mosca», mi si diceva, con un’aria di mistero, come se si alludesse ad un «luogo strategico», interdetto agli stranieri, cui solo pochi potevano accedere), anziché insistere, me ne facevo un alibi.

Altri alibi erano la mia timidezza, il timore di essere indiscreto. Sapevo della malattia di Giulia. Mi avevano raccontato che, prima di essere ricoverata nella Casa di riposo dei vecchi bolscevichi (dove si trovava ancora due giorni prima di morire), nell’abitazione dove Giulia viveva con la sorella Eugenia e con Delio e Giuliano, vi era una stanza non abitata, «la stanza di Antonio», che era come un santuario: lì c’era il suo calco, c’erano i suoi libri, le sue lettere, i cimeli… Non volevo creare turbamento o, forse, non volevo andare incontro ad una delusione. Temevo, egoisticamente, che Giulia Schucht fosse solo un simulacro della «Julca» dei miei ricordi giovanili.

Poi conobbi Giuliano Gramsci, ci legammo di viva amicizia. E puntualmente, ad ogni nostro incontro, Giuliano mi prometteva che, una domenica o l’altra, mi avrebbe portato «dalla mia mamma», come soleva dire con tenerezza. Ma quella domenica non veniva mai. Ed io sentivo ormai la omissione come una colpa: verso me medesimo, verso Giulia Schucht, verso il mio stesso dovere professionale di giornalista.

Finalmente, il 12 maggio dell’anno scorso, Giuliano mi conduce da «Julca». Proprio in quei giorni, per iniziativa dell’Istituto del movimento operaio internazionale, nell’edificio adiacente al Cremino, dove negli anni venti erano gli uffici della Terza Internazionale e dove Gramsci aveva lavorato, era stata inaugurata una lapide a lui dedicata. Dall’Italia erano venuti, oltre a Franco Ferri, la nipote di Gramsci, Mimma Paulesu, ed Elsa Fubini. Enrico Berlinguer aveva consegnato alle due compagne una lettera per Giulia e una medaglia d’oro in cui erano raffigurati i profili di Gramsci e Togliatti.

Con Giuliano, Mimma ed Elsa prendemmo posto su una «Volga» nera e ci dirigemmo, da Mosca, sulla strada di Minsk. Percorsi una trentina di chilometri abbandoniamo la strada per Minsk e ci inoltriamo, a sinistra, nel bosco di Peredelkiono, dove sono le «dacie» di scrittori famosi. La Casa di riposo dei vecchi bolscevichi sorge in alto, sulla sommità della collina, non lontano da una vecchia chiesa settecentesca, tra sentieri di campagna e tra orti. Poco lontano, sotto gli alberi, è la tomba di Pasternak.

La primavera russa era già esplosa. Gli alberi erano folti, si respirava un’aria profumata di erbe e di fiori. Quando entrai nella piccola stanza e vidi «Julca» rimasi stupito che la vecchiaia non avesse intaccato la sua bellezza e che il fascino che emanava dalle fotografie giovanili fosse così vivo e intatto nei suoi sguardi, nel suo modo di parlare, nel moto delicato delle sue mani. Quelle mani che sfiorando il profilo di Antonio Gramsci, inciso sulla medaglia d’oro che le era stata consegnata, le avevano richiamato alla mente ricordi dei quali Giulia ci rese partecipi con parole dette come in un soffio: «sento il suo sorriso». Parlava un italiano correttissimo e voleva sapere di ognuno di noi mostrando una curiosità, un interesse per tutto e per tutti. Allora sentii davvero come una imperdonabile colpa l’aver tanto indugiato ad incontrare Giulia Schucht.

*****

Giovedì 26 giugno 1980, dentro le mura dell’antico monastero che porta il nome di Dimitri Donskoj (il principe che sconfisse i Tartari) ho assistito alla cerimonia che ha preceduto la cremazione di Giulia Schucht. «Julca» era distesa nella bara rosso porporino ed il suo bel viso (tante volte segnato dalle crisi di epilessia, il «male sacro» di cui soffriva anche Dostoevskij) era pacifico e quasi sorridente. Un fazzoletto a fiori da contadina le avvolgeva il capo. Sul suo corpo, parenti ed amici avevano deposto rose e garofani, e le sfioravano il mento come un variopinto arazzo. L’edificio del crematorio ha andamenti architettonici particolari che ricordano una chiesa. La porta d’accesso è molto pesante, come nei nostri templi. Sul fondo, dove da noi è l’altare, c’è un grande organo a canne. Sotto quest’organo, delimitato da una piccola balaustra di marmo, una forma di letto su rulli metallici.

Vecchi bolscevichi, con grandi barbe e giacche di lino bianco cechoviane su cui spiccano mostrine e medaglie, sono intorno alla bara. Vicino a Delio e Giuliano, i rappresentanti del Partito comunista italiano venuti a dare l’estremo saluto a Giulia: Salvatore Caccipuoti, Elio Quercioli, Mimma Paulesu. Ci sono anche molti corrispondenti italiani a Mosca. La cerimonia comincia. L’organista intona una nota altissima, e poi gli accordi dell’«Ave Maria» di Schubert riempiono le volte di questa chiesa laica. Ascoltando l’organo mi ritorna alla mente in termini assai vaghi, un pensiero che, forse erroneamente, attribuisco a Gramsci. Il pensiero è in sintesi questo: quando avremo risolto i grandi problemi sociali, potremo dedicarci davvero a quelle questioni che oggi consideriamo e sono metafisiche (molti problemi sociali sono stati risolti nell’Urss, ma altri stentano ad essere risolti, mi dico, forse proprio perché certe questioni metafisiche si è voluto sbrigarle anzitempo).

Ora parlano gli amici e i compagni di Giulia Schucht: il rappresentante dei vecchi bolscevichi, il dirigente del partito del rione dove vivono i Gramsci (per il Pcus è presente anche Enrico Smirnov della sezione italiana del Comitato centrale), la figlia di Francesco Misiano, Lina, amica di Giulia. Poi parla Elio Quercioli: un discorso lucido senza ombra di retorica. Quercioli dice dell’amore nato tra Antonio Gramsci e Giulia Schucht, inquadra le due figure negli anni di lotta in cui si conobbero, rievoca le brevi gioie e il lungo dolore di questa coppia. Conosco Quercioli da molti anni. So la sua mite, lombarda ironia che lo difende dai groppi della commozione. Eppure Elio si interrompe due volte durante il suo discorso. La cerimonia è alla fine. Giuliano e Delio danno un ultimo bacio alla loro madre. La bara è portata a braccia sul letto metallico. Il cerimoniere preme un bottone: la bara si avvia sottoterra. Tra poco la cremazione. Dall’organo salgono ora le note dell’«Internazionale». I parenti sono invitati a restare. Gli invitati sono pregati di ritirarsi. Tra qualche giorno le ceneri di Giulia Schucht saranno inumate nella tomba di un altro famoso monastero di Mosca carico di storia: Novodevicij (monastero delle vergini). Qui riposa anche il padre di «Julca» Apollo Schucht, che fu amico di Lenin, il quale, durante l’esilio di Svizzera cullò molte volte tra le sue braccia la piccola Giulia figlia dell’amico. Come tutti i cimiteri, Novodevicij testimonia di quel mondo «grande e terribile» di cui Gramsci parlava nelle sue lettere a «Julca», e «grande e terribile» è stato il mondo della vecchia Russia. E anche, purtroppo, della Russia nuova.

Estratto da “Rinascita” n. 27 del 4 luglio 1980

Torna su

L’hi tech all’italiana: tanto fumo & niente arrosto
di Antonino Pingue

Italiani, popolo di consumatori hi tech; giovani italici super informatizzati che non fanno un passo senza computer, cellulare, palmare, e non progettano una vacanza senza macchinetta digitale, arrendetevi: in Giordania (per non parlare del resto d’Europa) sono più “intelligenti” di voi!

In questi giorni sui maggiori quotidiani nazionali è apparsa una notizia che tutti i giornali hanno commentato con generico rammarico. Si tratta dell’ennesima graduatoria internazionale che vede l’Italia sempre più perdente, fra i Paesi più industrializzati, sul terreno delle tecnologie per l’informazione e la comunicazione; in questo caso anche con la Giordania, la Tunisia, il Sudafrica....
La lista, che indica il grado di utilizzo delle nuove tecnologie nelle diverse nazioni (104 quelle prese in esame) è stata compilata, nell’edizione 2004-2005 del Global Information Technology Report, dal World Economic Forum: uno degli organismi più accreditati del mondo in queste cose, che si avvale della collaborazione della Banca Mondiale e dell’Unione Internazionale delle Telecomunicazioni.
Insomma una cosuccia seria…
Rispetto alla scorsa edizione l’Italia è precipitata dalla 28ma alla 45ma posizione.
Ma la vera sorpresa c’è se proviamo a capire l’esatto significato di questa classifica.
Forse l’Italia ha meno tecnologia di altri paesi? Forse che L’Islanda, (secondo posto assoluto dopo Singapore), la Finlandia e la Danimarca (tutte a sorpresa davanti agli U.S.A.), usano i computer, il cellulare, Internet, la posta elettronica ecc. ecc. più di noi? Forse che in mezzo ai fiordi e alle renne, Bill Gates fa molti più affari che, poniamo, nel golfo di Sorrento?
No. Anzi, l’Italia rimane fra i primi consumatori di tecnologia hi tech. Siamo, per esempio, al terzo posto assoluto nel mondo per l’uso di cellulari (mentre Singapore non va oltre il 15mo) al 9no per abbonati alla rete telefonica fissa, e al 21mo per grado di diffusione di Internet.
Quello che questa classifica indica è che noi italiani non siamo in grado di sfruttare le nuove tecnologie per migliorare la qualità della vita, per modificare i metodi di istruzione e potenziare la ricerca scientifica: siamo al 79mo posto per “qualità delle istituzioni di ricerca scientifica”, tanto per fare l’esempio più clamoroso.
Triste, tristissimo. Tutti ci colleghiamo ad internet (evviva!), ma poi ci accontentiamo di scaricarci le nuove suonerie per i cellulari, che a loro volta consumiamo a chili (siamo un popolo di schede prepagate e di telericaricatori), per votare a colpi di SMS il nuovo cantante di San Remo (ultima novità della manifestazione canora), o poco più. Tutti, insomma, super tecnologici e super frivoli nella vita quotidiana, pieni di tanti giocattolini costosissimi, vero, ma poi tutti in fila alla posta a pagare la bolletta o a mandare una raccomandata, o in banca a fare un bonifico, o all’agenzia per prenotare un volo aereo e alla stazione a comprare un biglietto, oppure restiamo in ufficio - occupati in affari o decisioni importanti - e... ci mandiamo la segretaria. Per non parlare del tele-lavoro, vera nuova frontiera aperta dalle nuove tecnologie (e largamente introdotta nelle altre nazioni), e al decentramento urbano, altra possibilità che le nuove tecnologie ci consentirebbero, alla formazione a distanza ecc. ecc.
Insomma teleinternauti italiani, mettiamoci in testa che l’hi tech, non è una moda, non è uno status, non è un modo per essere in, up o cool, è una seria occasione di cambiare, di inventarsi, di migliorare e contribuire a migliorare il nostro benessere. Noi, come WTC, non ci siamo mai sentiti così lungimiranti e necessari, modestamente…

Torna su

La campagna romana de "I XXV"
di Caterina Pellitta

 

Questo il titolo della mostra presente dal 10 marzo e fino al 24 aprile all´Accademia Nazionale di S. Luca. In essa sono esposti un centinaio di pezzi tra dipinti, disegni, fotografie e caricature creati dal gruppo di pittori detto "I XXV" (nato nel 1904) per via del loro numero e per richiamarsi al movimento de "I XX" (1883), gruppo di artisti impressionisti belgi che non poco influenzarono la loro produzione.
Aggirandosi per le sette sale, corrispondenti ad altrettante sezioni in cui si articola la mostra, si riscontrerà immediatamente che il soggetto che accomuna ed appassiona questa amena società di artisti è quello della campagna romana, come appunto suggerisce il titolo della mostra. Trovano, infatti, spazio sulle tele de "I XXV" enormi campi di grano, immense distese di rossi papaveri, contadini alle prese con le fatiche quotidiane, il tutto edulcorato da un´aura di nostalgica immortalità di quei luoghi a fronte di un´urbanizzazione sempre più forte.
Dunque, la campagna romana secondo "I XXV", ma non un´unitaria visione di un mondo, bensì l´evoluzione e la differenziazione dello sguardo di un gruppo estremamente eterogeneo che porta il visitatore dalla descrizione "verista" (le prime tre sezioni) del paesaggio rurale, a quella "idealista" (la quarta) che tende a preferire uno sguardo trasognato preferendo tralasciare i tanti e gravi problemi della campagna - romana e non solo - di quell´epoca, a quella ancora "simbolista" (la quinta) fino a giungere all´espressione Liberty e "divisionista" dei dipinti delle ultime stanze.
Colpisce in particolare la sesta sezione, quella dedicata a D. Cambellotti (1876-1960), la cui modernità tematica si coniuga ad un´enorme forza comunicativa: eloquente della sua sensibilità verso la questione dell´Agro Romano -Cambellotti aveva sposato la causa dell´antimodernismo e dello sfruttamento della classe operaia- è in particolare l´opera La falsa civiltà in cui un operaio dal volto di teschio selcia la campagna trasformandola in strada lastricata di sampietrini. Tra le altre sue opere qui esposte, sempre dal sapore simbolico, vagamente espressionista ed apocalittico, troviamo anche sculture, giocattoli, vasi e terrecotte.
L´Accademia di S. Luca accoglie in questi giorni anche opere di suoi ex allievi, come Arturo Noci che qui è presente con due oli su tela: Giardino-Villa Doria e Lago di Nemi; entrambi testimoni del suo Divisionismo e della sua capacità di rendere il soggetto con espressività e non in maniera meramente descrittiva. Colpisce, infatti, l´uso dei colori caldi e la resa della luce poiché... "dipinge a strisciate di colore, blocca la luce nelle sue brume, ricerca (anche inconsciamente) le linee di energia" (Fagiolo dell´Arco, 1996, p. 24). Attraversando le sale della mostra rimane, infatti, viva l´impressione di colori e di luci, sensazioni che proveremmo percorrendo la campagna al crepuscolo (come nei quadri di C. Ferrari) o al mattino (Petiti e Battaglia) o in giornate piovose (Coleman) o, ancora, ammirando un campo di papaveri (Anivitti e Grassi).
Nella mostra sono presenti anche alcuni "cammei", opere di autori non appartenenti a "I XXV", ma aventi contatti col gruppo: La contadina dei "Marcelli" di G. Balla (1871-1958), Paesaggio-Risveglio primaverile di G. Costa e lo straordinario dipinto simbolista di E. Serra y Auque, Mattinata autunnale, che rivela efficacemente con le acque di una palude e con l´edera appassita che ricopre le statue il sentimento di questo autore e dei suoi "XXV" amici nei confronti della tanto amata campagna romana che perisce nell´era dell’urbanismo.

 


Torna su

Di razza ebraica di Renzo Modiano
Atomi di memoria in una storia universale…

Quale il senso di un nuovo libro sulla Shoah? Non c’è il rischio che sia, dopo tante opere, letterarie e cinematografiche (tanto per citare solo due delle arti che hanno cercato di rappresentarla o di documentarla) un tentativo inutile? La Shoah come semplice materia di scrittura ci dà la misura di quanto sia difficile per un autore contemporaneo commuovere e comunicare avvenimenti così inauditi e al tempo stesso personali e vivi, come ad esempio la retata al ghetto di Roma dell’ottobre 1943. La Shoah come semplice materia di scrittura ci dà la misura della pericolosità di drammatizzare - nel senso di mettere in un tessuto narrativo - un dramma senza apparire speculativi o peggio, banali. Perché il male, specie quando è assoluto, è spesso iconograficamente banale… e il “brutto”, specie quando è ovunque è difficile da raccontare.
Il segreto di “Di Razza Ebraica”, e il motivo per cui Renzo Modiano vince la scommessa, se così si può dire, sta allora nella scelta di recuperare la storia attraverso la propria memoria, circoscritta, personale, soggettiva: un atomo di storia, come la definisce lui stesso, ma sullo sfondo della Storia universale. Ed è in questo recupero che la vicenda familiare raccontata dall’autore commuove e commuove profondamente.
“Di Razza Ebraica” racconta delle sessioni scolastiche scomode riservate agli ebrei, ricordando la soddisfazione dei ragazzi che si “godevano” il sabato fascista... racconta delle schegge di bomba ancora calde che davano ai bambini l’illusione di vivere l’orrore della guerra come un gioco con l’ebbrezza di piccole imprudenze... racconta dell’arrivo al campo della sua compagna di banco Rachel... quando dividono i prigionieri... “Mamma va a destra, io vado a destra. Che fortuna… Noi faremo la doccia. Dio fa che sia calda”.


[dal retro di copertina]

“La vita mi ha mostrato i denti, all’inizio.
Tra le prime immagini del mio album di ricordi c’è
l’espulsione da un luogo di villeggiatura al mare,
il sequestro della radio, che era molto di più di quanto oggi sia un apparecchio TV, l’allontanamento dalla casa di un compagno di gioco perché ero ebreo, la pagella di scuola dell’anno scolastico ’42-’43 con la scritta in rosso “di razza ebraica”, il peso di sentirmi diverso e disprezzato........”


E dell’uccisione dei maiali, di cui si ricorderà per sempre... la raccolta cruenta del sangue prezioso, l’inseguimento del maiale più ribelle e della rabbia di quelli che il bimbo vede come carnefici, perché del sangue non se ne doveva sprecare nemmeno una goccia... la divisione della spianata di polenta come insegnamento del fondamento di una società civile in cui ”il diritto dell’uno ha limite in quello del vicino e esiste sempre qualcuno con cui si deve dividere quello che c’è”.
“Di Razza Ebraica” mostra tante cose. Mostra che l’essenza più nobile dell’uomo è l’“umanità”, il segno che distingue uomo da uomo. Mostra, verrebbe da dire “ci ricorda”, che siamo il risultato delle nostre esperienze e che se esistono esperienze obiettivamente negative perché creano sofferenza o finiscono con la morte fisica, tuttavia ci distraggono dalle sovrastrutture che costellano la nostra vita quotidiana, obbligandoci a confrontarci con i grandi temi epici della vita, la morte, il potere dell’uomo sull’uomo, la gratuità e la banalità del male, sui quali soprattutto noi laici non riflettiamo mai abbastanza.
E’ questo, credo, il senso ultimo, e qualificante di questo libro.

Renzo Modiano, nato a Roma, vive a Milano da molti anni. Giornalista e dirigente, ha lavorato alla Olivetti nel campo delle Risorse Umane ed è stato direttore del Personale del gruppo Mondadori. Attualmente svolge attività di consulenza e di docenza.
Ha pubblicato: La Risorsa Umana, Sperling & Kupfer, 1993 e i romanzi: Ipotesi di giustizia nel Principato di A, Mondadori, 1991; L’inganno degli Dei, Marietti 1999; La disattenzione, Marietti 2002. Quest’ultimo libro, che ha già vinto nel 1996, all’opera inedita, il premio Dino del Bo,
è stato finalista al premio "Ultima frontiera" Citta di Volterra nel 2004.


Torna su

Vecchiume in digitale:
“La foresta dei pugnali volanti”, l’ultimo film di Zhang Yimou:


di Paola Sereni

Vi ricordate il Zhang Yimou di “Lanterne Rosse”? Dimenticatevi di rivedere un film dolente, rigoroso, sostenuto come quello. La foresta... è un western sentimentale, niente di più. La trama -nel più abusato filone erotico sentimentale dei vecchi film di cappa e spada (genere che in oriente si definisce wuxia)- è schematica, i dialoghi stereotipati -mai universali- ridotti a pretesto per un estetismo estenuato, fotografia impeccabile ma gelida... natura, carne e sangue ridotte a macchie di colore, la musica -che si pretende autoctona- in realtà strizza l’occhio all’Occidente nella maniera più smaccata, tra il sommo maestro della musica da film occidentale Ennio Moricone e i Mattia Bazar con i loro suggestivi gorgheggi.
Le azioni, la trama stessa, è piegata a questa logica estetizzante di un iper-movimento, innaturale, fantastico, dove gli attori saltano, quasi volano, compiendo acrobazie fisicamente impossibili, tutte realizzate con la tecnica della computer graphics. Una sorta di cartone animato, dunque, ma talmente realista che il pubblico non si accorge che è tutto finto, disegnato, disegnato al computer.
Nulla contro questo tipo di tecnica. Ma qui produce solo un barocchismo fine a se stesso e noioso. Vecchiume digitale, figlio dei più ritriti videogiochi.
Zhang Yimou si sarà anche nutrito dei drammaturghi greci e di Shakespeare ma sembra aver dimenticato le sue radici nel mondo dei mandarini e dei samurai. Non c’è più magia nei suoi film e le sue improbabili leggende d’amore e di morte non commuovono più.
Ciò che notiamo è solo una esasperante (e per certi versi sconfortante) omologazione al gusto occidentale. Incasserà un mucchio di sodi!


Torna su

L’Ala dell’angelo. Itinerario di un comunista perplesso" 
di Lorenzo Gallo

 

Dopo aver letto questo libro di memorie, in cui Rosini delinea il percorso intellettuale che lo portò all’adesione e alla militanza all’interno del Partito Comunista Italiano, d’impulso avrei voluto scrivere una sfilza di lodi mirabolanti carica di punti esclamativi, sul profondo acume, sull’eleganza del fraseggio, sulla modestia e l’onestà di quest’uomo eccezionale. Mi sono reso conto, però, che una simile recensione non si adatta allo stile piano e spoglio d’ogni retorica del Rosini. Cercherò, pertanto, di contenere e dissimulare il mio entusiasmo.

Tutto il libro mi è apparso come una lunga elegia, dominata dalla consapevolezza di aver servito un ideale splendido, senza poterlo realizzare – né, d’altra parte, sarebbe stato possibile: voler cambiare il mondo nel corso di una generazione fu un peccato di hybris, da cui l’autore si proclama guarito, senza però aver perso fiducia nell’Ideale, nonostante le rivoluzioni comuniste nel mondo per ora siano fallite: si sono spente nel sangue, o – peggio – si sono trasformate in tirannidi.

Però l’umiltà, l’impegno e la dedizione alla causa che traspaiono da queste pagine sono per me un carissimo frammento della storia di quello che fu, nonostante i suoi numerosi torti, il Partito più bello della storia d’Italia, in cui migliaia di cuori potevano vibrare all’unisono; una comunità di spiriti eletti che si disperse solo con il venir meno dell’Ideale.

Rosini, rifuggendo da apologie e autoencomi, ha realizzato così quasi controvoglia un piccolo, leggiadro monumento alla moralità delle donne e degli uomini comunisti, cui l’Italia deve tutto ciò che di bello e di dignitoso è avvenuto nell’ultimo secolo; un monumento il cui nitore spicca nel grigio di questi tempi gretti.

In conclusione, L’ala dell’angelo è un libro commovente, che emozionerà tutti coloro che non abbiano un cuore marcio, nero come la tirannide da cui Emilio e tanti altri eroi sconosciuti ci hanno liberato.

Leggi anche "Presentazione de: L'Ala dell'Angelo"

Torna su

Quando le parole… affilano i coltelli

di Antonino Pingue

Chi fa il mio mestiere, cioè lavora con le parole da mattina e sera, cercando anche di ricavarci un guadagno, sa molto bene che un testo nasconde al suo interno tanti piccoli ingranaggi segreti.
Eppure a scuola ci hanno insegnato ad individuare queste “macchinerie” solo nei grandi autori, con il risultato che la bellezza di un testo ci appare ormai qualcosa che sa di Rinascimentale o comunque di lontano.Invece spesso la bellezza delle parole (o comunque la loro efficacia), fa parte della nostra vita quotidiana.

Tanto più che questi “trucchi del mestiere”, ci sono continuamente propinati nei telegiornali, nelle pubblicità, negli articoli dei giornali, ma anche nei romanzi e nelle fiction. Conoscerli può essere utile. Aggiungo anche che non bisogna guardarli con alterigia: essi sono parte integrante dell’arte di saper scrivere che è anche arte di saper comunicare o meglio arte di saper “interessare”.
Tentiamo allora l’analisi di un brano molto molto particolare, accostandosi a questo con il massimo (!) rispetto e la massima (!) stima e ammirazione… lasciamo al lettore valutarne il grado di ironia.
Ad urlarlo nel mio quartiere (S. Giovanni) è un arrotino ambulante. Egli passa tutte le domeniche mattina sotto casa mia a bordo di una vecchia macchina, con megafono montato sul tetto da cui recita:


DONNE, È ARRIVATO L’ARROTINO!
ARROTO: COLTELLI, FORBICI, FORBICINE, FORBICI DA SETA, COLTELLI DA PROSCIUTTO.
DONNE! E’ ARRIVATO L’ARROTINO E L’OMBRELLAIO
AGGIUSTIAMO GLI OMBRELLI
L’OMBRELLAIO, DONNE!
RIPARIAMO LE CUCINE A GAS.
ABBIAMO I PEZZI DI RICAMBIO PER LE VOSTRE CUCINE A GAS.
SE AVETE PERDITE DI GAS, NOI LE AGGIUSTIAMO.
SE LA VOSTRA CUCINA FA FUMO, NOI ELIMINIAMO IL FUMO DELLA VOSTRA CUCINA A GAS.
LAVORO SUBITO
IMMEDIATO!

Il testo, apparentemente commerciale, è in realtà sommamente poetico ed efficace.
Il primo verso è pronunciato marcando la D di donne, facendo una piccola pausa prima del verbo, e prolungando leggermente l’ultima vocale di “arrotino”.
L’incipit è breve, preciso, inequivocabile. Contiene sia il messaggio, sia il soggetto a cui il messaggio è diretto. Inoltre, sfruttando il suono duro della D di “donne”, l’arrotino lo utilizza come rombo, tuono, mortaretto. E’ implicita una sospensione temporale. Sembra dire: “Se state facendo qualcosa smettete di farla (ddonne!). Se state passando l’aspirapolvere, invaghitevi della mia voce che è riuscita a raggiungervi nel vostro tecnologico rumore: ho da parlarvi, e potete giurarci, ne varrà la pena”.
Nel secondo verso (Arrota: coltelli, forbici, forbicine, forbici da seta, coltelli da prosciutto), l’arrotino passa ad un tono più trattenuto. A livello fonetico si limita a sottolineare la doppia R di “arrota”, ma trasforma un noioso elenco d’utensili, in una piccola filastrocca. Non dice infatti: “forbici, forbici da seta e forbicine”, che suonerebbe noioso, ma sfrutta la graziosità del diminutivo così che: “forbici, forbicine, e forbici da seta”, ci serva da viatico per entrare in un mondo di sogni, nel regno felice dove tutto è affilato.
Attento a non cadere nel lezioso, però, chiude il verso con un concetto maschio, pratico, concreto, metallico e inflessibile, ma al tempo stesso, saporito, salato, sostanzioso come: “coltelli da prosciutto”. E per legare la cosa alle svariate e infinite forbicine citate, sfrutta la ripetizione di “coltelli”, con cui la frase si apre.
Il verso, perfettamente simmetrico, allude al tempo stesso ad un’energia vigorosa, levigante, rappresentata da “coltelli”, ma ammicca anche ad una sensibilità tipicamente femminile (le “forbicine”). Insomma questo arrotino ha braccia forti, capaci di arrotare, ma è anche dolce, paterno e ispira fiducia.
Va da sé che a questo punto ha attratto la nostra attenzione.
Ma non basta. Ripete: “ddonne! è arrivato l’arrotino e l’ombrellaio”. Pronuncia il verso con uguale tono, ma ora, quando comincia a prolungare l’ultima vocale di “arrotino”, che noi quasi c’eravamo assuefatti, che quasi lo prevedevamo, lui improvvisamente prende fiato, pronuncia squillante la congiunzione e subito dopo dà la notizia: è anche un ombrellaio!
Se stavate correndo alla porta con i vostri coltelli e le vostre forbicine, ora vi fermate e tornate indietro a prendere anche gli ombrelli.
Notare come il verso, molto astutamente, ha una duplice funzione. Ricominciando da “ddonne” palesa la sua ambizione di poesia, di verseggiare, di Trovatore sotto il vostro castello (ovvero non state assistendo ad un annuncio ma ad una serenata); dall’altra la ripetizione del verso attutisce la sorpresa dell’ombrellaio. Egli non vuole apparire come qualcuno che nasconde qualcosa. Non vuole essere cioè ansiogeno. Agganciando “l’ombrellaio” ad “arrotino” coniuga le due cose. Implicitamente sembra voglia tranquillizzarvi. Non dice: sono un arrotino, e poi… errore! sono un ombrellaio. Dice: sono un arrotino e un ombrellaio.
Lui è il genio della lampada, porta buone nuove dal paese dei balocchi, ha mille storie per voi, e chi lo ascolterà cadrà in stato di grazia.
Consapevole della novità, l’arrotino insiste con tono dolce, un pizzico didascalico. Spiega, conciliante, che un ombrellaio aggiusta ombrelli. L’ombrellaio, appunto, dddonne.
Ora che con accortezza ha conquistato la vostra fiducia, ma che dico? il vostro affetto! mette subito a frutto la cosa, esplicitando le sue nobili origini (che vanno a legarsi con le sue nobili intenzioni). Si autopromuove Principe Azzurro e passa al plurale maiestatis. Ogni residuale sospetto cade.
Ogni barriera fra te, antropologicamente definita ddonna, e un, tutto sommato estraneo, è annullata. Una nuova realtà affascinante è inventata di sana pianta (come solo i grandi poeti sanno fare). E’ la fine di tutte le colpe, il giubileo delle buone maniere, della vecchia galanteria; tanto più pregna di significato se annunciata da, niente popo’ di meno, un principe. Il principe degli arrotini… che è anche ombrellaio!
E allora egli fa un altro piccolo passo avanti e allude...: “Ripariamo le cucine a gas. Abbiamo i pezzi di ricambio per le vostre cucine a gas”.
Allude per la prima volta, non solo a che voi scendiate sotto il portone a portargli coltelli, forbicine e ombrelli, ma che sia lui, udite udite, a salire a casa vostra, ad entrare nel talamo, nella centrale operativa del vostro potere casalingo: la cucina!
Riflettiamo…
Quanto assurda sarebbe stata questa richiesta solo cinque righe sopra?
Un uomo, dal timbro di voce vagamente fallico, che passeggiando rumorosamente in macchina (per giunta su una macchina fuori moda) invita in coro le donne a farlo salire in casa? Inaudito! E di mattina per giunta, quando i mariti sono fuori. Sì, i poveri mariti poco fallici, e dai soprannomi capponeschi (pici pici, cipollino di Tittina tua, puffetto della casa, puzzolo, pancino, rolletto, coccolino, eccetera eccetera).»
Ora la cosa appare invece perfettamente plausibile. Lui è arrivato a questo risultato senza che voi ve n’accorgevate, anzi, senza neanche che voi poteste sospettare a cosa realmente mirava. Ha modificato l’orizzonte delle nostre conoscenze. Aperto possibilità considerate remote. Non ha inventato nulla a ben vedere, ma ha dato forma.
Ecco la vera poesia! Quella nascosta, modesta, pregna d’odori, non avulsa, ma completamente calata nel reale. Pratica!
Bisogna inoltre notare che non ha mai usato su di sé un aggettivo. Non ha detto: sono bravo, vi ha alluso. Non ha detto: sarò gentile, lo ha dimostrato.
Così, tutte trafelate dalle vostre faccende domestiche (ddonne!), circondate da detersivi corrosivi, smagliate nelle calze, tradite dai parrucchieri e insultate dalla cellulite, vi torna in mente, il sapore pratico e corposo di: “coltelli da prosciutto”. E ve lo ripetete estasiate: “Coltelli da prosciutto”.
E anche noi maschietti, certo, noi poveri maschietti casalinghi (n’esistono sempre di più), siamo presi alla voce nerboruta dell’arrotino, da una folata omofobica e ci precipitiamo, nostro malgrado, alla finestra, invidiosi a guardare.
E’ una primavera femminile quella che si scorge. Donne, donnine e donne di servizio affollano le vie, e i portoni si aprono e si chiudono, mentre pantofoline piumate tacchettano lungo vialetti condominiali condonati da malconce piante grasse. E’ un fiorire di mondi alternativi.
“Se la vostra cucina fa fumo” giura il Poeta, “noi eliminiamo il fumo della vostra cucina a gas”; ripetendo cucina, gas e fumo, come un unguento speziato steso a lenire le preoccupazioni quotidiane.
“Quando, quando?”, urlano le ddonne.
“Lavoro subito” annuncia finalmente esplicito, “Immediato!”.
Il resto, è letteratura.

 

Torna su

Giovanni Boldini
di Isabella La Costa

 

Giovanni Boldini (1842-1931) è stato uno dei grandi protagonisti della cosiddetta Belle époque, di cui seppe incarnare, soprattutto attraverso gli splendidi ritratti femminili, lo spirito di effimero compiacimento e di implicita decadenza.
L'importante mostra che si è aperta a Padova da pochi giorni intende dunque ripercorrere la carriera del pittore, cercando di superare il luogo comune che lo vuole esclusivamente fine interprete del gusto dell'alta borghesia parigina a dispetto delle sue sperimentazioni stilistiche così prossime all'ambiente impressionista da fargli guadagnare l'amicizia di Degas e la sospettosa diffidenza di Monet e Renoir. Le quasi centoventi opere, prestate dalle più famose collezioni pubbliche e private sia europee che americane, offrono uno spaccato completo e approfondito sui vari passaggi della crescita artistica di Boldini dalla formazione a Firenze a contatto con il gruppo dei Macchiaioli, alla fortunata avventura francese (preludio a una vita di viaggi anche oltreoceano) caratterizzata dalla proficua collaborazione con lo scaltro Groupil, scopritore di talenti e vero magnate del mercato d'arte di Parigi. Non solo ritratti, quindi, ma anche vedute (come quelle di Venezia) e scene di vita cittadina che consentono al visitatore di apprezzare la sua particolare tecnica pittorica fatta di improvvise sciabolate di colore (memori dello studio sui maestri spagnoli del Seicento, in primo luogo Velazquez) che quasi sciolgono le forme in immagini vacue ma frementi, simili per certi versi agli effetti cromatici del pastello, che non a caso era uno dei medium prediletti dall'artista.

Tra i tanti capolavori in mostra è infine interessante sottolineare la presenza del Ritratto della marchesa Lucia Casati della Galleria Nazionale d'Arte moderna di Roma (vera icona della manifestazione, nella brochure in copertina), recentemente al centro di una piccola ma singolare esposizione -in contemporanea con la mostra La Primavera di Galileo Chini- tenuta nella sala Boldini della stessa Galleria Nazionale d’Arte Moderna: L’Opera in prestito, dalla National Gallery di Toronto, “The Marchesa Casati” di Augustus John. In questa mostra, a suo tempo segnalata nel nostro sito in “Appuntamenti in città”, si poneva a confronto l'opera di Boldini con un altro ritratto della marchesa realizzato da Augustus John e un terzo quadro di Kees van Dongen, dubitativamente proposto come ulteriore effigie dell'eccentrica nobildonna.



Torna su

“Mitteleuropa sul Tevere”
Neoclassico e Biedermeier dalle collezioni Coronini Cronberg di Gorizia

22 ottobre 2004 – 27 febbraio 2005
Museo Mario Praz – Roma

Pochi anni separano il Conte Guglielmo Coronini Cronberg (1905-1990) da Mario Praz (1895-1982). Collezionisti entrambi, quasi coetanei, l’uno conservò ed accrebbe un vasto patrimonio familiare di arredi ed opere d’arte, oggi confluito nella Fondazione che ne ricorda il nome, l’altro creò dal nulla, confortato dai suoi studi, una dimora di squisita coerenza che esemplarmente illustra il gusto dell’abitare tra il1770 ed il 1850, tra neoclassicismo appunto e biedermeier.
Anche questa casa è divenuta un museo – il Museo Praz – e proprio in questa sede, nel piccolo spazio dedicato ad esposizioni temporanee vengono ora mostrate trenta opere, selezionate tra le tante che la collezione goriziana possiede, proprio sulla base della loro appartenenza agli anni prediletti da Praz.
Scelte sulla base della loro eccellenza, della loro capacità di rappresentare sinteticamente la storia della famiglia Coronini Cronberg in quegli anni, e soprattutto sulla base della loro capacità di sviluppare sintonie e rimandi con le opere della collezione Praz, le trenta opere spaziano dal mobilio ai bronzi impero, alle scene di conversazione, ai ritratti familiari di gusto biedermeier, alle malachiti ed agli argenti russi, fino agli acquerelli d’interno.
Accanto ai nomi assai noti, come quelli dello scultore danese Thorwaldsen o del bronzista parigino Thomire, si trovano quelli di artisti minori ma non meno rappresentativi, come quello del francese J.B.G. Youf, autore di molti dei pregevoli mobili impero delle case dei Bonaparte, di cui anche in collezione Praz esiste un secrétaire, o della pittrice Margherite Ancelot Chardon (1792-1875) il cui ritratto della famiglia russa Kuschnikoff, a Parigi nel 1818, avrebbe potuto configurare nelle Conversation pieces pubblicate da Praz nel 1971.
Ritrattisti dell’area mitteleuropea come J.N.Ender (1793-1876) o M.Sthol (1818-1881) sono presenti in entrambe le collezioni, ma l’assonanza più tipicamente “prazzesca” è quella offerta dalla bella tempera, presente in mostra, di Michelangelo Maestri (notizie tra il 1779 e il 1812), desunta come molta della sua produzione da un prototipo raffaellesco, che raffigura Medea e che con altri tre analoghi soggetti è riprodotta identica all’interno di uno degli acquerelli della collezione Praz, eseguito in Inghilterra attorno al 1840 dal pittore di origine russa Francio Stephanoff.

La collaborazione offerta dal Museo Praz è stata per la Fondazione Palazzo Coronini Cronberg un’occasione davvero unica sia per la splendida cornice messa a disposizione sia per aver dato alla dimora storica goriziana la possibilità di poter essere presente sul panorama artistico e culturale nazionale in una fase molto delicata del proprio sviluppo: dallo scorso anno infatti sono in atto importanti restauri strutturali del complesso museale che ne hanno richiesto la chiusura temporanea al pubblico, mentre sono rimasti visitabili i cinque ettari di parco all’inglese che circondano la Villa cinquecentesca.

Galleria Nazionale d’Arte Moderna Museo Mario Praz
Roma

Fondazione Palazzo Coronini Cronberg
Gorizia

Per informazioni:
Palazzo Coronini Cronberg, v.le XX Settembre, Gorizia 0481.533485 fax 0481.547222
Museo Mario Praz, via Zanardelli, 1, 00186 Roma tel. 06.6861089 fax 06.3221579


Torna su

"Vecchiaia"
di Alberto Madricardo*

Proponiamo un saggio che ci sembra particolarmente interessante per il tema e il titolo che, nella sua rude semplicità, appare coraggioso e quasi provocatorio (se non altro perché parla di "Vecchiaia" e non di quella ormai universalmente denominata "Terza Età"...)


La vecchiaia è prima di tutto uno stadio della vita, quello finale. Con l’iniziale condivide la delicatezza: l’inizio, come alla fine, la vita è più fragile ed esposta. La vecchiaia è insieme evento personale, “privato”, e pubblico. E’ però prima di tutto un fatto intimo, riguarda il rapporto che ogni uomo ha con la propria esistenza.
Solo in epoca relativamente recente la vecchiaia è diventata una questione di rilevanza generale: con la creazione dello stato sociale. Prima – fino a poco più di un secolo fa – era un problema dei singoli, delle famiglie, al massimo delle associazioni caritative ed assistenziali.

* Per il profilo dell'autore vedi in calce a "Aforismi" in Cultura

Per leggere l'articolo clicca qui

Commenti al testo di voi soci

 
  (13/1/05) da Paola Sereni
Il saggio è scritto in maniera intensa e suggestiva, però lo trovo – spero che l’autore mi perdoni – discretamente autoreferenziale, e soprattutto astratto rispetto allo spaccato della società in cui viviamo. Sembra che l’autore dimentichi che la valenza sociale della vecchiaia è tanto differente da individuo a individuo e meraviglia che riesca a scrivere di vecchiaia in maniera così dotta e filosofica, ma avulsa dalla realtà sociale... come se un vecchio ricco e uno povero fossero simili (e invece c’è un abisso!) o un vecchio “intellettuale” fosse simile a un vecchio camallo (altro abisso!). E’ difficile soprattutto che i pensieri dell’autore - peraltro affascinanti - stimolino riflessioni serene.
Credo che l’autore non abbia ad esempio mai pensato quanto è doloroso per una donna dover metabolizzare che la vecchiaia per un uomo può essere socialmente neutralizzata dal potere, i soldi, e quant’altro, mentre le donne – diceva giustamente una volta in televisione Aldo Busi che di misoginia se ne intende – non hanno capito che per loro la bellezza (e il suo “vissuto” che, secondo il comune sentire per una donna è legato indissolubilmente alla giovinezza) è una trappola mortale... Ci vorrebbe un po’ di leggerezza calviniana per sorvolare sulla pesantezza dell’argomento... ma non è facile. Mi piacerebbe conoscere il parere di qualche altro socio e/o frequentatore del sito

 
 
 

(29/1/05) da Alberto Madricardo
Cara Paola Sereni,
riguardo alla medietà certo che c'è una branca della psicologia, ma anche della sociologia, della economia, ecc. che si basano sulle statistiche della media. Ma si tratta comunque di una astrazione necessariamente rozza ed approssimativa, compiuta per scopi operativi, che non funziona neanche sempre e non più di tanto (pensa ad es. alle "previsioni scientifiche" degli economisti, che si avvicinano per esattezza di previsione agli oroscopi) .
L'uomo medio, inoltre, come il ricco, non passerà mai attraverso la "cruna dell'ago" e per la "porta stretta" di cui parla il vangelo. La medietà è il pericolo che minaccia la democrazia. Nella medietà ciascuno si conferma attraverso gli altri e nessuno per e davanti a se stesso. Tutti perciò sono subalterni e nessuno libero. Il demagogo lo sa, e si presta a far da schermo rassicurante tra ciascuno e se stesso. Ma anche lui appartiene alla medietà, perchè egli stesso usa la massa che domina come schermo tra sè e sé.
L'alternativa alla medietà non è l'aristocraticità, che è caratterizzata dalla legittimazione davanti a se stessi per "l'essere meglio degli altri", è il legittimarsi davanti a se stessi prima che davanti agli altri.
Continuando, sarebbe un bel tema. Per quanto riguarda lo "spaccare la parola in quattro" credo che sia proprio quello che si deve fare.- Il linguaggio è come un labirinto che offre una infinità di vie, tutte apparentemente obbligate - le parole - che non portano però da nessuna parte (cioè alla chiacchiera). Bisogna esaminare le parole, specie alcune, perchè possono contenere dei trabocchetti. Le situazioni di stallo, in cui veniamo a trovarci storicamente, hanno prima di tutto ragioni linguistiche. Il bla bla che impera nei mezzi di comunicazione non è altro che la rappresentazione dello spettacolo per molti aspetti osceno dell'impotenza della democrazia, che evoca neanche tanto velatamente sullo sfondo la figura del "decisore".
Mi rendo conto che mi sono lasciato andare troppo. Mi fa piacere che il mio discorso sulla vecchiaia abbia suscitato qualche reazione.
Ciao Alberto Madricardo.

Torna su

Presentazione de: "Finale, presto" di Ayres Cenni

Ayres Cenni è nata a Roma ma, di famiglia colta e cosmopolita, è vissuta a lungo all’estero e parla correntemente tre lingue. Le sue poesie infatti sono in italiano, in inglese e spagnolo. Così, non solo affascina nei suoi versi l’intreccio sinestesico di sfere sensoriali diverse, ma la musicalità della lingua di volta in volta scelta riflette la cultura sottostante e spinge a cambiare continuamente registro nell’ascoltare la poetica dell’autrice per apprezzarne a fondo l’intensa vitalità e umanità che ne traspare.
“Finale, presto” si snoda entro sei percorsi intitolati corripondenze, patrie, scorie, evasione, amore, musicalia, in un fuoco d’artificio fantastico ed incalzante tra esperienze storiche ed emozioni private.

 

Torna su

Presentazione de: "L’Ala dell’Angelo.
Itinerario di un comunista perplesso", di Emilio Rosini*

Roma 2003, Edizioni di Storia e Letteratura (collana: Letture di pensiero e d’arte)

Dal risvolto di copertina: Dove siano finiti i comunisti italiani, si chiedeva recentemente Vittorio Foa: «...sarebbe importante sapere qualcosa delle loro scelte, come le vedevano allora e come le vedono adesso, se sono ancora comunisti e in quale modo, se non lo sono più, da cosa sono stati mossi. Il comunismo specificamente italiano...minaccia di restare senza testimoni».

Questo libro è una testimonianza. L’autore si confronta con le sue esperienze archiviate ma non rimosse. Un tentativo di estrarre qualche barlume di storia dalla elaborazione e revisione critica di atteggiamenti, convincimenti e giudizi condivisi da buona parte della sua generazione.


*Dalla quarta di copertina: Emilio Rosini (nostro socio onorario, ndr) ha operato attivamente nel Partito Comunista Italiano dal 1944 al 1966 rappresentandolo anche alla Camera dei Deputati. E’ stato avvocato, docente, consigliere di Stato, presidente del T.A.R. del Veneto, vicesindaco di Venezia

Torna su

Parapista che cipista! di Antonino Pingue*

Come confrontarsi con persone di culture diverse, che parlano strane lingue, e vengono da paesi lontani… anche molto lontani? Può essere la lingua il paradigma di un gigantesco equivoco? Sembra un tema difficile, ma Antonino Pingue lo affronta con originale allegria nel suo “Parapista che cipista!”, uscito per la Mursia a primavera del 2003 e che la redazione di WebTimeC non poteva non segnalare insieme agli altri libri che i nostri soci scrittori hanno pubblicato.

Un romanzo per giovani lettori (svegli) dai 10 anni in su. Cominciamo dal titolo: non è ostrogoto, è Laktanese. Significa: “gioia, stupore, meraviglia. Lo puoi dire quando la tua squadra fa goal, quando ti regalano una torta al cioccolato, quando senti cose intelligenti in tv, e per altri avvenimenti straordinari”. Altri esempi di laktanese: “Pazza li panza”, vuol dire in bocca al lupo. “Gambalsta con la gasta bartamista”: salve come stai?. E, per finire, l’intraducibile proverbio: “Sella garba non spiscialla va alla morra del pollilla”
A parlare così è Lak, un extraterrestre atterrato sulla Terra per studiarci. A fare le spese di questo strano linguaggio sarà il giovane Simone. Tra i due nasce una rocambolesca amicizia, piena di fraintendimenti e personaggi bizzarri, dove Lak si convince che Simone nel frigorifero tiene elicotteri e che la sua maestra è una scimmia.

Leggi l’incipit
Leggi l’incipit in Laktiano


HANNO DETTO DI PARAPISTA CHE CIPISTA:
«Parapista è un libro rodariano in piena civiltà dell´immagine, con il risultato che se Lak parla una lingua inedita – tanto che al libro il suo autore ha deciso di allegare un mini dizionario indispensabile per decifrare il laktiano – a rivelarsi sorprendentemente nuova finisce per essere quella di Simone, cioè la nostra, secondo un gioco di rispecchiamenti da cui Rodari ha tratto miracoli.»
LaRepubblica 9 marzo 2003

«Un romanzo divertente, costruito intorno ad un argomento che i ragazzi affrontano tutti i giorni: il linguaggio, il suo valore e la sua relatività. Le regole, e l’invenzione. Per scomodare parole più complesse: il significato e il significante.»
LaStampa, 15 marzo 2003

«Nel leggere Parapista che cipista non ho potuto fare a meno di pensare al grande, anzi, gigantesco Roald Dahl e alle sue indimenticabili storie, prima fra tutte “Il GGG”: con il suo strano modo di esprimersi ed un aspetto così particolare, il Grande Gigante Gentile non potrebbe benissimo essere un alieno, proprio come Lak?!»
SuperEva

Leggi l’articolo apparso su SuperEva qui

* Antonino Pingue vive a Roma con una moglie e un gatto (non necessariamente in quest’ordine). Lavora come sceneggiatore, e per la Rai scrive fiction e sit-com. E’ socio di WebTimeC con cui collabora attivamente nella redazione e come coordinatore-responsabile dei corsi d’informatica. In particolare Antonino sta predisponendo moduli (individuali o a piccoli gruppi) di scrittura professionale e/o scrittura creativa.

Leggi la scheda dell’autore in laktiano



Torna su

Le cose dell’amore di Umberto Galimberti

Libro complesso e colto, sta diventando il successo editoriale di queste feste. Un’analisi dell’amore svolta, non con una prospettiva psicanalitica (come al solito!), ma tramite una vasta cognizione filosofica. Agile, ma non per questo semplicistico, diviso in rapidi capitoli monotematici (Amore e Trascendenza; Amore e Sessualità; Amore e Seduzione; Amore e Passione; ecc.) Galimberti, docente in Filosofia della Storia e Psicologia Generale all’Università di Venezia, ci regala uno sguardo diverso e critico verso questo sentimento così come si è venuto a trasformare ai giorni nostri.

Scrive nella prefazione Galimberti: «L’amore da un lato è diventato l’unico spazio in cui l’individuo può esprimere davvero se stesso, al di fuori dei ruoli che è costretto ad assumere in una società tecnicamente organizzata, dall’altro lato questo spazio, essendo l’unico in cui l’Io può dispiegare se stesso e giocarsi la sua libertà fuori da qualsiasi regola e ordinamento precostituito [ a-more: dove l’alfa privativo si accosta al sostantivo latino mos, moris, costume, regola, ndr], è diventato il luogo della radicalizzazione dell’individualismo, dove uomo e donna cercano nel Tu il proprio Io, e nella relazione non tanto il rapporto con l’altro, quanto la possibilità di realizzare il proprio Sé profondo, che non trova più espressione in una società tecnicamente organizzata, che declina l’identità di ciascuno di noi nella sua idoneità e funzionalità al sistema d’appartenenza.»

Curiosità: mentre riflettiamo con Galimberti sul pudore (se Dio non ha pudore in quanto non ha corpo, e l’animale non ha pudore perché non ha il senso della propria individualità, il pudore umano esprime costantemente la dialettica fra queste due dimensioni che così intimamente ci costituiscono) o sulla passione (la passione è “patire l’altro” e non c’è passione che non comporti una sorta di alienazione da sé), apprendiamo anche, sorprendentemente, che la canzone “Come te non c’è nessuno” della Rita Pavone degli anni ’60 ricalca fedelmente i concetti espressi da Giovanni Gentile in “Frammenti di una gnoseologia dell’amore”…

Torna su

Uno sguardo sulla disciplina giuridica e tributaria dei fondi pensione
di Massimo A. Procopio*

Il libro, di cui segue un abstract, illustra le fondamenta giuridiche e tributarie dei fondi pensione.

Com’è noto, il legislatore ha attribuito alla previdenza complementare un ruolo di fondamentale importanza per la soluzione dei problemi che si porranno in un prossimo futuro in ordine alla (purtroppo) inevitabile riduzione delle prestazioni pensionistiche obbligatorie. Più in particolare, le prestazioni erogate dai fondi pensione saranno destinate, da una parte, a compensare la riduzione di quelle pubbliche e, dall’altra, a costituire una vera e propria pensione per quei soggetti sprovvisti di previdenza di base. Si tratta, come può rilevarsi, di un rilevante problema di ordine sociale.
Il d.lgs. 21 aprile 1993, n. 124 contiene la disciplina delle forme pensionistiche complementari. Tale decreto, tuttavia, nonostante le numerose modifiche cui è stato oggetto, non appare sufficientemente incentivante a favorire l’adesione alle forme pensionistiche complementari. Per tale ragione il Parlamento ha approvato la legge 23 agosto 2004, n. 243, contenente norme in materia pensionistica e deleghe al Governo nel settore della previdenza pubblica, per sostegno della previdenza complementare. Il decreto legislativo dovrà essere emanato entro il mese di settembre 2005. Uno dei principi contenuto nella citata legge-delega è quello relativo al conferimento del tfr quale fonte di finanziamento della previdenza complementare.

La disciplina giuridica e tributaria dei fondi pensione, Collana di diritto del lavoro, FrancoAngeli s.r.l., Milano, 1^ edizione 2002
di Massimo A. Procopio

* Il nostro socio Massimo A. Procopio è dottore commercialista in Roma. Autore di numerose pubblicazioni in materia di diritto tributario e societario, è docente in vari corsi organizzati da primari istituti di management e dall'Istituto Superiore dell'Economia e delle Finanze.
Si è dedicato alla complessa problematica delle forme pensionistiche complementari sin dall’entrata in vigore della legge delega 421/92, partecipando quale relatore a convegni nazionali e tenendo numerosi seminari.
E’ così competente e appassionato nella sua materia (!) che è disposto - su richiesta tramite il nostro sito - a dare ampie spiegazioni sugli argomenti trattati dal suo libro e dalle altre sue pubblicazioni, affiancando eventuali soci/socie che vogliano apprendere la normativa e/o suggerimenti in tema di fondi pensione o altri argomenti collegati, avvalendosi anche di ricerche su Internet o altri mezzi informatici.


Torna su

La globalizzazione e i suoi oppositori,
di Joseph E. Stiglitz

di Alberto Madricardo

A due anni dalla pubblicazione in edizione italiana, il libro di Stiglitz sui contraccolpi devastanti di una globalizzazione liberista "ideologica" e sulle gravi responsabilità degli organismi internazionali che dovrebbero garantire la armonizzazione delle diversità nel mondo resta un punto di riferimento imprescindibile per chiunque voglia comprendere più a fondo le dinamiche economico-sociali in atto.Riproponiamo perciò una vibrante recensione del volume pubblicata subito dopo la sua uscita sul periodico "Polizia e democrazia", Ed. d.D.E,. Roma

I veri nemici della globalizzazione
Nella globalizzazione vi sono organizzazioni che dovrebbero regolare e orientare nel senso di una crescente armonizzazione le economie del mondo. Ma queste organizzazioni, come il Fondo Monetario o la Banca Mondiale, spesso agiscono secondo logiche che non corrispondono agli interessi del mondo, specialmente della sua parte più povera.
Stiglitz, che conosce bene i meccanismi degli organismi finanziari mondiali per avere ricoperto in essi incarichi di primo piano, conduce una serrata analisi da cui si può giungere ad identificare chi siano veramente, al di là delle apparenze, i nemici della apertura delle economie e dello sviluppo mondiale.

Per leggere l'articolo clicca qui

Commenti al testo di voi soci

 
 

(13/12/04) da: Francesca
Caro webtimec, da tempo volevo complimentarmi per l'impostazione divertente e
interessante che avete dato al SITO, per
la sua qualità.
Alcuni giorni fa mi sono soffermata sulla recensione del libro di Stiglitz
di Alberto Madricardo che ho molto apprezzato. In particolare ho apprezzato
la sua capacità di sintesi e di interpretazione "onesta" del complesso
pensiero di Stiglitz che evidentemente l'autore condivide lucidamente
(anch'iooooooooo!). A presto
Francesca

 

Torna su

"Aforismi"
di Alberto Madricardo
*

 

• Che cosa c’è di peggio dell’inferno? Il momento in cui ci si accorge di essere passati attraverso il paradiso e di non averlo visto.
• Il mondo effettuale senza la possibilità è come un asteroide morto.
• La realtà è una linea retta. Ma noi sappiamo tracciare solo cerchi.
• Alla poesia almeno un poco collabora l’ignoto, il mondo non chiuso.
• Pensare all’universo come ad un “cosmo” è già di per sé esprimere la essenza di ogni teodicea.
• La sacralità ha prima di tutto bisogno dell’assenza. Ma sacro è ciò che nell’assenza è più vicino alla presenza.
• Nel labirinto la via d’uscita è dove non c’è nulla.
• La violenza diviene sovranità quando nessuno osa più misurarsi con lei.
• Più ci si avvicina all’essenziale, più si assapora il gusto della semplicità. Ma anche, allo stesso tempo, tutte le furie si scatenano.
• Chi non ha un aggancio nel rovescio delle cose è condannato a scivolare qua e là, sospinto da ogni piccolo urto, insieme a tutto il suo sistema di riferimenti. Perciò senza accorgersene.
• Quando si afferma che tutto è dominato dalla necessità si intende dire che solo ciò che è necessario davanti a se stesso può accettare di passare al nulla.
• A volte, per sentire meno dolore, ci si rende più piccoli. Restringendo se stessi si restringe anche il dolore.
• Non si ama pienamente una persona se non si prova stupore per la sua esistenza.
• Preoccupato di tenere dritta la prua alla meta, non si cura affatto di raggiungerla: questo è lo spirito della morale.
• Che il passato possa essere redento è un’idea molto più totale che quella di dialogare infinitamente con l’infinito.

*Alberto è un socio di WebTimeC... che vive e opera a Venezia e in Friuli.
Laureato in filosofia all'Università di Padova, ha insegnato nelle scuole superiori, è
attualmente presidente dell'Associazione Culturale Nemus e in contatto con associazioni culturali in area veneta e friulana, ha interessi molteplici che spaziano dalla pedagogia, all'estetica, al teatro, oltre che alla filosofia, soprattutto alla filosofia della storia. In collaborazione con l'Istituto Studi Filosofici di Venezia o con altre istituzioni nazionali e locali ha
promosso corsi di aggiornamento per docenti, ha partecipato come docente o relatore a corsi, master per docenti, convegni anche internazionali. Collabora a riviste e siti culturali, è autore di saggi e in particolare di testi teatrali che sono stati rappresentati a Udine e in Friuli - tra l'altro - anche nel suggestivo Castello di Villalta, e a Bologna (Teatro di S. Martino).


Torna su

“La Mala Educacion”
Analisi di un film
di Antonino Pingue

“La Mala Educacion”, di Pedro Almòdovar è un film che divide
“La Mala Educacion”, di Pedro Almodovar è un film che divide. Usciti dal cinema avrete la sensazione di aver visto un capolavoro (probabilmente non capendo il perché), o sarete profondamente delusi. Il motivo è presto detto: La Mala Educacion non spiega nulla e dice pochissimo. Spinge dunque lo spettatore a speculare sul suo significato. Cosa che non tutti sono disposti a fare.

Sono sempre molto scettico quando si tratta di decriptare gli intenti di un artista. E’ raro, infatti, che un autore voglia nascondere dentro la propria storia messaggi di carattere profondo. Qualche grande autore fa eccezione. Me ne viene in mente uno per tutti: Ingmar Bergman. Lo stesso Kubrick sovente minimizzava le interpretazioni dei suoi esegeti. Non c’è però alcun dubbio che per questo film Almodovar ha voluto compiere un’operazione intellettuale piuttosto complessa. Occorre dunque incamminarsi sulla strada del recupero dei significati nascosti (sgradevole ma necessario).
Permettetemi almeno di farmi e farci una promessa: di fronte a due scelte interpretative, prendiamo sempre quella più semplice, e teniamo presente che in un percorso creativo spesso il caso ha più rilevanza di quanto si pensi.

“La Mala Educacion” e Nanni Moretti
Cominciamo col dire che il film è per stile e conduzione molto simile ad un altro film uscito relativamente di recente: “La stanza del Figlio”, di Nanni Moretti. Entrambe le opere sono dirette con sguardo distaccato e lucido, senza nulla concedere ad una qualsivoglia emozione. La storia è scarna, quasi inesistente per Moretti, pretestuosa per Almodovar. A livello narrativo è l’equivalente di un verbale di polizia, pieno di particolari, ma privo di aggettivi e di enfasi. Le ragioni di una simile scelta, sono chiare a livello tecnico: si vuole parlare di categorie complesse e alte, dunque un buon autore capisce che il massimo che può fare… meglio: la cosa che è chiamato a fare, è di mostrare ciò che ha osservato. Nel caso di Moretti: la concretezza della morte. Se non avesse scelto questo taglio, sarebbe apparso ridicolo o retorico.
La scelta ha però interessanti ricadute, in un mondo, il nostro, dove il linguaggio è sempre più enfatico e barocco. Punto.

Scomodiamo queste alte categorie
Scomodiamo queste alte categorie: La Mala Educacion vuole essere un film antologico e ontologico. Antologico perché raccoglie in sé una serie di situazioni tipiche che è molto raro poter riscontrare tutte insieme (sfido chiunque a presentarmi qualcuno che conosca un travestito con cui ha avuto un amore omosessuale da bambino mentre era importunato da un pedofilo e che poi si è scopato il fratello del travestito che si scopava anche il pedofilo che si scopava suo fratello… ). Ontologico perché, cito dal vocabolario: “studia le modalità fondamentali dell’essere in quanto tale al di là delle sue determinazioni particolari”.

L’Amore
A chiunque si lamenti che nel film manchi l’Amore adduco questa impostazione ontologica a giustificazione. A chiunque invece (esistono entrambe le correnti di pensiero) voglia a tutti i costi rintracciarci l’Amore, faccio presente che sostenere che il film parli dell’amore tra gli uomini è sostenere che gli uomini che si amano sono delle vere fetenzie. Il personaggio del regista è talmente commosso dall’incontro con il suo vecchio amico che lo mette alla porta come uno scocciatore. Veniamo a sapere subito dopo che il nostro regista ha appena terminato una relazione con il suo assistente, ed è così addolorato che in capo a pochi giorni si trova un nuovo amante. Il prete adora il bambino, vero, ma è un’adorazione tutta fisica, e quando lo rivedrà dopo anni lo getterà via come uno straccio preferendo suo fratello. Per il fratello poi il sesso è pura merce di scambio. Infine, il travestito che sembra amare solo le sue tette (su questo personaggio sottolineerei soprattutto la mancanza di amore verso la madre e verso il fratello). No, questo film decisamente non parla d’amore, signore e signori.

Analizzare i personaggi?
A mio parere non dobbiamo cadere nell’errore di scavare nei personaggi perché essi sono estremamente inconsistenti, poco più che iconici, ed è solo l’abilità del regista a non farcene accorgere. Esempio: il prete. Se dovessi giudicare il personaggio da sceneggiatore, lo definirei poco approfondito, contraddittorio, superficiale. Perché è prete? Cosa lo spinge a spretarsi? Possibile che commetta un omicidio senza il minimo rimorso? Nessuno risponde a queste domande.
La verità è che il volto del prete presta la voce a due personaggi accomunati insieme per pura necessità narrativa. Ma come, Almodòvar, attento osservatore delle diversità, si confonde e ci descrive un pedofilo che da vecchio diventa un amante d’aitanti ventenni? Sono due categorie sessuali completamente diverse che non coincidono. Il bambino è esile, magro, asessuato. Il giovane è muscoloso, atletico, virile. Con il bambino il prete è dominante e gode nell’essere dominante. Con il ragazzo è invece il tipico vecchio dominato. Nulla coincide.
Sappiamo benissimo che esistono parecchie decine di omosessualità diverse e che queste fra loro non solo non si incontrano ma spesso si guardano con sospetto.
Se giudichiamo i personaggi, non possiamo che concludere che La Mala Educacion è un brutto film.

Dunque uno sguardo ontologico
E veniamo allora all’ontologico. Possiamo affermare che il film è ontologico perché ogni singola scena mostra in maniera dettagliata le dinamiche di incontro e di scontro tra diverse tipologie di uomini, che per quanto diversi gli uni dagli altri sono tutti identici.
Tutti i personaggi maschili agiscono per ottenere potere sull’altro maschio. Stabilire chi dei due è dominante. Stabilire la posta in gioco e i reciproci interessi. Tutti potenzialmente si odiano, ma accettano di condividere la medesima strada apparentemente per un tornaconto personale e oggettivo (che sia rubare una moto, lavorare, realizzare un sogno o una passione), ma in realtà per puro spirito di competizione. Ossia: chi molla la sfida è un vigliacco; chi non risponde al colpo è una “femminuccia”. Nello stesso identico modo, nel momento in cui uno di questi presupposti viene a cadere, il rapporto decade e scompare nel nulla.

Una scena infinitamente ripetuta
A ben vedere tutte le scene del film sono questa scena infinitamente ripetuta: due maschi s’incontrano, ognuno ha qualcosa che vuole dall’altro, e si instaura una lotta, senza esclusione di colpi, per ottenere ciò che si vuole.
La scena più bella: quella in piscina. La scena più rappresentativa: quella in camerino fra l’attore e il travestito, scena in cui viene citato il titolo del film.

La mamma
Ma la vera conferma che quanto dico potrebbe essere corretto è l’analisi del personaggio della madre. Unica donna che compare nel film, è anche l’unico personaggio diverso a livello ontologico. E’ l’unico personaggio che ama anche se nulla ha in cambio. E’ l’unica che non controlla nessuno, e che ciò nonostante mantiene il suo affetto. Un comportamento inconcepibile e, infatti, in-concepito da tutti gli altri.

Il ricatto
Non sottovalutiamo neanche il tema del ricatto e del riconoscimento. I vari personaggi si caratterizzano per il continuo ricatto e si riconoscono in misura dei loro ricatti, cioè della loro capacità di imporre se stessi su gli altri.

Concludendo: che cosa è “La Mala Educacion”?
E’ un film leggibile a più livelli, tutti comunque riferibili a categorie generali.
E’ un film extra-narrativo; interessante se contrapposto ai film iper-narrativi che sciacquettano nei cinema e nei nostri videoregistratori.
E’ un film sugli uomini e sul loro modo di concepire una qualsiasi forma d’interazione (spesso le scene di sesso mi sono apparse puro simbolismo).
E’ un film sull’omosessualità, certo, ma solo in parte. In questo senso ha due meriti, due grandi meriti. Uno: indica come al di là dei ruoli il comportamento di due uomini che vanno a letto insieme è sempre un comportamento di uomini fra uomini, che abbiano o no le tette. Due: mostra, omosessualità o non omosessualità, l’altissimo grado sensuale che esiste fra gli uomini. Gli uomini si seducono sempre: tra capo uffici e impiegati, fra impiegati e facchini, questa seduzione, questa lotta continua, estenuante, insensata, “MALEDUCATA”, non è esente da richiami di carattere sessuale.

Almodovar mette in scena l’uomo nella sua virilità intesa come gabbia, eliminando ogni possibile sovrastruttura, ogni possibile compromesso. Mette in scena l’uomo alla radice, l’uomo tribale. E nel fare questo in realtà recupera l’uomo come mito, restituendo anche una visione dell’omosessualità mitica (e forse poco corrispondente al reale). Qualcuno in questo ha voluto ravvisare l’amore maschile (ma le conseguenze a pensarci bene sarebbero pesanti). Siamo dunque tutti Achille che amano Patroclo e Patroclo che muore in battaglia per mano di Ettore e Achille che uccide Ettore e trascina il suo cadavere davanti a tutti, per trenta volte intorno alle mura di Troia, per vendicarsi?
Forse…
Perdonateci, noi uomini siamo fatti così.

Commenti al testo di voi soci

 
  Ho molto apprezzato l'analisi in oggetto, perché ci induce a riflettere sui diversi punti di vista da cui si può guardare a questo film inusuale, che sembra dire cose scontate e ritrite mentre, in realtà, Antonino Pingue ne sottolinea l'ansia di prevaricazione esistente fra gli uomini: male oscuro da cui non sono esenti le donne, in un gran calderone di adrenalina e slancio vitale.
Forse siamo stati costruiti per sopravvivere a tutti i costi, anche con i mezzi più crudeli.
Franca Ayres

Torna su

Quando abbiamo smesso di pensare?
di Irshad Manji
di Lorenzo L. Gallo

Personaggio oggettivamente controverso, Irshad Manji ha una vita affascinante: ugandese di origine indiana, fuggita in Canada con la famiglia durante la dittatura di Idi Amin, è una scrittrice omosessuale e musulmana. Da brava canadese, non si è fatta scoraggiare da questa situazione difficile, volgendola anzi a suo favore: proprio grazie al suo vissuto così particolare, oggi è una giornalista e scrittrice nota e apprezzata anche fuori dal suo Paese.

Il suo libro (un’opera prima) è una lettera aperta ai musulmani del mondo che contiene un impietoso J’accuse; secondo la studiosa, l’Islam sarebbe caduto nell’ultimo secolo in una spirale integralista a causa del predominio politico ed economico dell’Arabia saudita sugli altri paesi musulmani non arabi, che pure contengono la stragrande maggioranza della popolazione musulmana al mondo. L’Islam saudita avrebbe imposto un modello integralista e repressivo che non ha giustificazioni né storiche, né culturali né tanto meno religiose, e che sarebbe basato su una lettura del tutto parziale e arbitraria del Corano.
La Manji prende altre posizioni coraggiose difendendo Israele, condannando il razzismo degli Arabi nei confronti di Ebrei e Cristiani, e persino degli altri musulmani non arabi, e criticando la gestione della causa palestinese da parte dell’attuale leadership!
Si tratta dunque di un libro controverso, che infrange anche i tabù di una parte della sinistra europea la quale, in nome del multiculturalismo, rischia di accettare non solo usi piuttosto innocui come il velo islamico ma anche la segregazione e la sudditanza in cui vivono le donne musulmane anche in occidente, tema di scottante attualità nelle grandi comunità islamiche di paesi come Francia e Germania.
La Manji sostiene che l’Islam può essere riformato, e anche se naturalmente tale riforma deve arrivare dall’interno, gli occidentali possono aiutare i musulmani con una critica costruttiva. Come questo messaggio possa essere recepito oggi in Italia, nel mezzo delle nostre piccole guerre di religione, rimane una questione aperta: per questo è sicuramente un libro che vale la pena conoscere e dibattere.


Irshad Manji: Quando abbiamo smesso di pensare?
Guanda, Parma 2004, 249 pp., € 12,50

 


Quattro parole sul piacere di leggere
di Antonino Pingue


Per inaugurare il nostro Angolo, mi è stato chiesto di scrivere una breve riflessione sul piacere di leggere, e in particolare, visto che mi è capitato di scrivere un libro per ragazzi pubblicato per Mursia, su come invogliare i giovani alla lettura; annoso problema che chi ha figli o nipotini conosce bene.
Cominciamo col dire che il libro per ragazzi è un settore particolarmente vitale nel panorama editoriale italiano.
Secondo un'indagine commissionata dall'Associazione italiana editori, nell'ultimo anno l'offerta è cresciuta ancora, nonostante sia un periodo di crisi e di calo delle vendite. Sono aumentati i seriali, i tascabili, e i libri per piccolissimi.
A cosa è dovuto questo successo?
Accade il fatto strano che i bambini italiani leggono più dei loro genitori?
In parte sì, ma non solo.
Se infatti è vero che basta entrare in una libreria e scoprire molti bambini spulciare, sfogliare, manomettere libri (il segno specifico di un lettore in erba), è anche vero che molti genitori comprano e leggono libri, ufficialmente scritti per ragazzi. Harry Potter n'è il caso più lampante ma non l'unico.
Dunque, al di là dell'età, la letteratura per ragazzi funge da apri strada, da procacciatrice di nuovi lettori?
Probabilmente.
E infatti prolificano iniziative culturali per “educare alla lettura”.
Ma siamo così sicuri che sia possibile educare alla lettura?
Troppo spesso rannuvolati intellettuali pongono l'accento sull'importanza di leggere, sull''importanza di farsi una cultura (una cultura con la C maiuscola).
C'insegnano che per vivere meglio, per essere padroni della situazione, per comprendere la vita, perfino per trovare in futuro un buon posto di lavoro, bisogna leggere leggere leggere.
Insomma il romanzo viene accostato allo studio.
Leggere uguale studiare (con la S maiuscola). Non c'è niente di più deleterio per scoraggiare un lettore che inquadrare la narrativa all'interno di questo schema! Dice Daniel Pennac in “Come un Romanzo” (Feltrinelli): "Il verbo leggere non sopporta l'imperativo, avversione che condivide con alcuni altri verbi: il verbo “amare” e il verbo “sognare”".
A scuola, molto spesso, ci hanno fatto odiare questo strano oggetto, colorato, odorante, rumoroso che è il libro. Ci hanno spinto ad identificarlo con un qualcosa che assomiglia al registro (quindi per default fuori dalla realtà).
Il libro, invece, è innanzi tutto un momento di divertimento.
Chi, come me, è un accanito lettore, sa benissimo che la lettura è una specie di vizio, di febbriciattola che qualcuno ti ha contagiato, esattamente come si contagia il raffreddore. Per contatto, vicinanza, osmosi. Sappiamo benissimo, inoltre, che come il raffreddore, o il morbillo è difficilissimo riuscire a contagiarsi volontariamente. Te lo becchi sempre quando meno te lo aspetti (proprio come quando ci s'innamora...).
Un annetto fa su Rai tre in una trasmissione (“Parola mia”, quella condotta da Rispoli), l'eminente (lo dico con rispetto... con una punta d'ironia... ma con rispetto) professor Gianluigi Beccaria, si è lanciato in un discorso che cito più o meno alla lettera: "Bisogna leggere, ma l'importante è leggere i grandi classici, se dovete leggere questi nuovi romanzetti, questa letteratura denominata fiction, è meglio che lasciate perdere". Non vi nascondo che sono dovuto andare a prendermi un bel bicchierone d'acqua (va beh, d'accordo… era vino!) per riprendermi dallo scivolone che Beccaria in quella circostanza (ancora una puntina d'ironia?) aveva preso sparpagliandolo nell'etere televisivo.
Leggere, come correre o giocare a pallone, comporta un'infinità di benefici, ma nessuno, dico nessuno, il venerdì sera in procinto di uscire per una sana partita di calcetto si sognerebbe mai di annunciare: "Mamma esco per andare a stimolare i mie rapporti sociali, tonificare le gambe, e affinare i riflessi", direbbe solamente (e giustamente): "Vado a calcetto, forse torno tardi, non mi aspettare, che dopo scatta una pizzettina post partita, bye bye!".
Quanto poi all'uso contrapposto di “classico” e “fiction”, vorrei ricordare al prof. Beccaria che un capolavoro (un classico prof.!) come “Il circolo Pickwick” di Dickens fu senz'altro anche un prodotto di fiction.
Uscì a dispense su un giornale a metà dell'ottocento, e certo non fu scritto con impellenti bisogni d'erudizione e di bellezza.
Racconta Dickens: "Ero un giovanotto di ventitre anni quando gli editori Champman e Hall mi cercarono per propormi di scrivere qualcosa da pubblicare a puntate al prezzo di uno scellino per fascicolo. Accettai perché mi servivano soldi per sposarmi e comprare casa". Dickens la casa se la comprò, e come, e ciò nonostante Pickwick rimane un capolavoro oltre ad essere fra i libri più divertenti e mirabolanti che si può avere occasione di leggere.
Bene, e con questo la finisco, con tante scuse a Beccaria, e con l'augurio che chi non conosce il piacere del libro, camminando per strada, o anche, perché no, in un'aula, incontri accidentalmente un accanito lettore. I segni del contagio sono rapidi e ineluttabili. … al primo libro pensi sempre che sia un caso, al secondo ti senti solo un pizzichino eccentrico. Il terzo? Non conta! Al quarto ti dici: “ma sì, facciamo uno strappo”. Il quinto è “una fase passeggera”. Poi scopri che gli scaffali della tua stanza sono ormai pieni. Hai un attimo di sbandamento, ma subito ti ripeti: “Posso smettere quando voglio”. Ma due giorni dopo - non sai neanche come – ti ritrovi dal ferramenta a comprarti quattro scaffali, no, meglio cinque, da attaccare al muro, e 10 stop da 8mm grazie, che devono reggere mucio peso, e allora capisci che ci sei dentro, fino al collo ci sei dentro!

Non mi resta che augurarci che da oggi in questo nostro Angolo, dove appariranno recensioni scritte da tutti noi si contribuisca a diffondere questa filosofia epidemiologica...
Ciao!

 


Recensione de: "Scontrini: racconti in forma d’acquisto"
di Silvana Giancola

 

Curiosando tra gli scaffali di una libreria di Via Cola di Rienzo mi è capitato tra le mani un libercolo color arancione dalla strana copertina e da un ancor più strano e imprevedibile titolo: “Scontrini”: racconti in forma d’acquisto. Una antologia di testimonianze autentiche curata da M.B. Bianchi e V.Millefoglie sul mistero che unisce chi compra a chi ha comprato.
I racconti che costituiscono la materia di questa raccolta accostano narratori già noti a totali sconosciuti, ad affermati pubblicitari, a ragazzi e bambini. Assolutamente esilarante, forse perché conosco molti malati immaginari, è quello di Alessandro Canale, autore teatrale e pubblicitario che ha già pubblicato per Fernandel “Razza canina e “Beoti gli ultimi”, stupidario esistenziale in forma ritmica. Lo “scontrino” raccontato da A. Canale è stato rilasciato da un ambulatorio dove il pubblicitario si è recato con ansia indicibile per farsi curare chissà quale male oscuro, sotto forma di neo, che si è poi rivelato essere un volgare comedone…..uno di quei grumi di grasso che le adolescenti si spremono quasi giornalmente davanti allo specchio.
Lo stile dei racconti è fluido, colorito, discorsivo per cui ne consiglio la lettura per un momento di piacevole relax.

A chi interessa si veda il sito www.scontrini.net

.


HAIKU*
Roma invernale 2004

Nei capitelli
Stratificati a Roma
Grida l’inverno

Platani spogli
Puntano verso il cielo
Dita aperte

Sulle cupole
Piega e distorce il vento
Ogni parola

L’ansia fa vela
Alle ‘nuove’ dal mondo
Acre di sangue


Come le stille
Vedo lacrime in croce
D’alberi a Roma

* “genere poetico della letteratura giapponese, che consta di soli tre versi di 5, 7 e 5 sillabe, e che ha trovato imitatori nella poesia europea contemporanea, spec. in quella “pura” francese e in quella italiana postdannunziana, miranti a una essenzialità quasi epigrammatica” (definizione dal “Vocabolario della lingua italiana (in 5 volumi) - Treccani”

Ayres -che preferisce firmare con il suo pseudonimo che è anche il suo secondo nome- aggiunge:

in Giappone l'HAIKU proviene dal TANGA, composizione in versi 5-7-5-7-7, i cui primi documenti risalgono al IV secolo. Nel XVII secolo nasce l'HAIKU fissandone i versi in 5-7-5, espressione sintetica e poco aggettivata delle sensazioni umane in rapporto al mondo e viceversa. Praticamente è uno strumento che concentra l'immagine nella nuda musicalità di poche parole, evitando rime baciate, ampollosità, melodramma e quant'altro.
Nel Novecento è sorto l'HAIKU in stile libero e tutte queste forme sono popolari non solo in Oriente ma anche negli Stati Uniti e in altri paesi. [In Italia nel 1987 la Japan Air Lines ha bandito il primo concorso di Haiku in italiano e in latino].
Per uno scrittore è affascinante confrontarsi con una metrica 5-7-5 di sole tre righe per esprimere un'emozione e questi versi in forma di haiku di ROMA INVERNALE sono una personale interpretazione di questa delicata e antica forma d'arte.

Ayres spera che altri soci WebTimeC proseguano “la catena letteraria con i loro pensieri sugli stessi temi, formando una ideale bacheca elettronica che non sia la solita chat infarcita di messaggini spazzatura, ma un punto d'incontro tra persone adulte e consapevoli, che si arricchiscono a vicenda su argomenti specifici...”

 


r